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Orazio Gentileschi, «Mosè salvato dalle acque», 1633, Madrid, Museo Nacional del Prado

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Orazio Gentileschi, «Mosè salvato dalle acque», 1633, Madrid, Museo Nacional del Prado

Orazio Gentileschi e la pittura come metafora del viaggio della vita

Nelle sale di Palazzo Chiablese la Galleria Sabauda di Torino celebra l’artista partendo dalla sua straordinaria «Annunciazione», cui si aggiungono importanti prestiti italiani ed esteri

Arabella Cifani

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Nella Galleria Sabauda di Torino, ancora troppo poco conosciuta (è una delle più belle e importanti pinacoteche italiane) esiste un dipinto che è uno dei vertici della nostra pittura secentesca. Difficile passargli davanti e non restarne colpiti. È l’«Annunciazione» di Orazio Gentileschi: la Vergine, giovane e fresca come una rosa, si è levata da poco dal suo casto letto, le cui lenzuola candide contribuiscono ad accentuare quel senso riservato e geloso di una purezza destinata solo all’eterno. È mattina, si direbbe, e dalla parte superiore della finestra aperta irrompe con il sereno una colomba bianca che vola all’interno del pulviscolo dorato di un polline divino e fecondo. Maria si è avvolta in uno smaltato  mantello oltremarino che le fa quasi da corazza, le sue guance sono arrossate perché quello che sta sentendo è inusitato e straordinario. Ai suoi piedi, come un uccello divino, è planato un angelo meraviglioso  che le parla e con la mano indica il cielo da dove è giunto l’ordine. L’angelo ha una veste rosa viola, a contrasto con il manto  di un giallo ocra abilmente mescolato al giallo di cadmio e all’orpimento. Sono colori continuamente cangianti, sui quali l’occhio si posa senza avere pace e senza  poter placare l’attrattiva. Una tenda rossa del letto fa da sfondo e anche qui il colore  muove e oscilla dal granata al carminio, all’amaranto, al porpora, alla lacca di garanza. Tutto il resto è sfumato di grigio.  Un meraviglioso e lungo giglio bianco piega lievemente il suo capo pesante nella mano dell’angelo: uno dei gigli più belli mai dipinti nella storia dell’arte. Ne percepiamo il profumo, tanto delicato e soave, quanto intenso e persistente, e torna alla mente un pensiero di Longhi nel suo  fondamentale Gentileschi padre e figlia del 1916: «Sceglie con gran cura Orazio la natura, ma non la trasforma: una volta scelta, la copia, e bene».

Se questa è la premessa, che cosa potranno essere le altre opere di Orazio Gentileschi (Pisa, 1563-Londra, 1639), pittore sommo ma oggi un po’ in ombra anche per «colpa» della figlia Artemisia, altra grandissima pittrice,  che ultimamente gli ha rubato la scena? La Galleria Sabauda di Torino, nella figura della sua direttrice Anna Maria Bava, coadiuvata da Gelsomina Spione (Università di Torino), dedica a Orazio una grande mostra, «Orazio Gentileschi. Un pittore in viaggio», allestita dal 22 novembre al 3 maggio 2026 nelle sale del Palazzo Chiablese. Abbiamo intervistato le due curatrici.

Perché una mostra su Orazio Gentileschi?
Il museo cerca sempre di costruire mostre legate al patrimonio dei Musei Reali e in questo caso è stata messa al centro dell’attenzione una delle opere più belle, più importanti e più eclatanti della Galleria Sabauda: la celeberrima «Annuncia-zione» di Orazio Gentileschi. La mostra vuole  anche focalizzare i rapporti di Torino (che furono importanti e complessi) con questo artista, di cui  oltre all’«Annuciazione» del 1623 possediamo anche, al Museo Civico, la «Vergine assunta con la Trinità», già nella chiesa dei Cappuccini, e un  mistico «San Gerolamo in preghiera». Gentileschi, dopo una prima formazione presso il fratello Aurelio, a diciassette anni si stabilì a Roma presso uno zio. Fu attivo a Roma, a Farfa e nelle Marche fino al 1621, quando si recò a Genova e poi a Torino. Fu quindi chiamato in Francia da Maria de’ Medici e infine in Inghilterra da Carlo I. Realizzò affreschi nelle chiese romane di San Giovanni in Laterano, San Silvestro in Capite e nel casino delle Muse, eretto nel 1603 dal cardinale Scipione Borghese; a Sampierdarena decorò il casino di Marcantonio Colonna. Dipinse molti quadri d’altare per chiese di Roma, delle Marche, di Genova. Formatosi in ambiente manierista toscano, a Roma fu subito attratto dalla novità stilistica del Caravaggio, che mutò completamente e per sempre il suo primo gracile linguaggio. Del luminismo caravaggesco si valse per affinare la sua personalissima ricerca formale e coloristica caratterizzata da nitidezza del segno e da freddi e squillanti accordi di colore di gusto tutto toscano.

Come sottolinea il titolo della mostra Gentileschi fu dunque un artista in viaggio? 
Orazio lavora e corteggia il duca Carlo Emanuele I; lo ricorda anche in una lettera del 1623. in cui  enumera al duca i molti servigi che già gli rese «da giovinetto». Sulla parola «giovinetto» bisogna fare una tara, perché il dipinto dei Cappuccini si data fra il 1605 e il 1608 e a quel tempo Orazio  aveva oltre quarant’anni: nemmeno con tutto l’ottimismo giovanilista d’oggi lo si poteva ritenere  ancora un ragazzo. Era un’epoca in cui i pittori dovevano dotarsi di un protettore, di qualcuno che ne garantisse l’ingaggio, il lavoro, la tranquillità economica. Orazio passò tutta la vita, parte per inquietudine personale, parte per problemi concorrenziali pratici, a cercarsi un protettore e a un certo punto si orientò su Torino e il suo duca. 

Sono note altre opere dipinte per il duca? 
È difficile pensarlo, anche perché l’Assunta  riprende nell’impostazione spaziale e nell’uso della luce che modella i corpi la lezione di Caravaggio, che Gentileschi aveva conosciuto a Roma. Ed è proprio a Gentileschi che spetta la prima introduzione delle novità caravaggesche nel capoluogo sabaudo, dove a inizio Seicento si navigava ancora nelle tiepide e rassicuranti acque del Manierismo moncalvesco. Fino al Settecento era però nota come esistente a Torino una tela di Gentileschi raffigurante Loth e le figlie,  misteriosamente scomparsa e di cui sarà esposta una copia antica (ante 1668), delle collezioni del Castello di Carrù (Cn). È da sottolineare come i dipinti di Gentileschi realizzati per il Piemonte, soprattutto l’«Annunciazione», abbiano goduto di vastissima fama da subito e siano stati oggetto di copie, spesso di alta qualità. 

Ci saranno prestiti importanti?
Sì, con l’arrivo di opere straordinarie come il «Mosè salvato dalle acque» del Prado di Madrid: un dipinto meraviglioso, il cui prestito si inserisce all’interno di un proficuo programma di scambi con il Prado che attuiamo ormai da anni. Poi, per la prima volta, si vedranno a confronto l’«Annunciazione» di Torino e quella della chiesa di San Siro a Genova. Altri importanti prestiti dal Louvre, dai Musei Vaticani, Pinacoteca Nazionale di Urbino, Palazzo Pitti, Musei di Berlino e di Nantes.  

Orazio Gentileschi, «Annunciazione», 1623, Torino, Musei Reali-Galleria Sabauda

La maggior parte dei dipinti presenti sono di soggetto religioso: come contate di renderli leggibili e comprensibili a turisti e visitatori che arrivano da ogni parte del mondo?
È vero, ma sono dipinti religiosi nei quali è talmente eclatante l’aspetto di somma grazia e di eleganza formale che crediamo che alla fine gli spettatori possano essere coinvolti dalla bellezza generale della tela. Sarà comunque una mostra molto spiegata anche con cartelloni esplicativi. E poi non dimentichiamoci che il linguaggio caravaggesco continua a piacere moltissimo. E qui si può vedere come c’è un Gentileschi prima e un Gentileschi dopo l’incontro con Caravaggio: una fulminazione, un’illuminazione. 

Ma Gentileschi è quindi da considerarsi un caravaggesco tout court?
Caravaggio è per lui una svolta, ma lo interpreta comunque in maniera sua, con luminosità e chiarore e con quegli aspetti di eleganza e di garbo formale che sono alla base del suo naturalismo. Uno stile che si porterà ovunque, fino all’Inghilterra, dove la sua pittura diviene  ancora più raffinata. Nella costruzione della mostra abbiamo giocato molto sugli incontri di Gentileschi: Caravaggio certamente, ma anche Van Dyck, il Baglione, Guido Reni. 

Si dice che non avesse un carattere molto facile.
No, infatti Giovanni Baglione, nella sua biografia, scrive che «più nel bestiale che nell’humano egli dava. Se Horatio Gentileschi fosse stato di humore più praticabile avrebbe fatto assai buon profitto nella vita» e non sono certo parole leggere. C’è da dire però che fu molto amato da alcuni. Il celebre processo contro Agostino Tassi per la violenza sessuale alla figlia Artemisia gli si ritorse completamente contro, obbligandolo a cercare sponde diverse da quelle di Roma; le Marche, poi finalmente Genova, dove passò forse gli anni migliori divenendo amico del Borzone e di Fiasella; ma capitò in un momento infelice, come quello della guerra del 1625 fra la Repubblica di Genova e il ducato di Savoia, e fu obbligato a incamminarsi di nuovo, verso Firenze e poi verso l’Inghilterra, ma nel frattempo era diventato un uomo vecchio e disilluso, oppresso da tre figli maschi che gli portavano solo guai (finirono anche in carcere in Inghilterra) e con una figlia femmina che gli faceva concorrenza. Ecco perché il tema del viaggio è il letimotiv della mostra. 

Anche in Inghilterra pare non si trovasse bene.
No, infatti cercò in tutti i modi di rientrare in Italia, perché il clima non gli giovava, la religione gli era ostile (anche se a corte governavano un re e una regina cattolici, destinati però a fare una brutta fine), riteneva che tutti i pittori olandesi presenti a Londra lo odiassero e il freddo finì per ucciderlo. Del suo pessimo umore è testimone anche la bellissima incisione di  Lucas Vorsterman tratta da un ritratto che gli fece Anton Van Dyck. 

In questa mostra ammireremo in meravigliosi panni di Orazio, degni di un negozio di alta moda, e la realtà dei dettagli, ricordando che lui e Caravaggio si scambiavano ali d’angelo, vesti fratesche e altri oggetti del mestiere, e spesso anche i modelli, da quelli belli con il volto da santo a quelli con le fisionomie cattive e bestiali. Potremo considerare de visu che l’artista trattava ogni evento come qualcosa di realmente accaduto, qualcosa di vero  piuttosto che di verosimile, ragion per cui ci troveremo faccia a faccia con veri miracoli,  vere apparizioni, vere estasi. Scopriremo con piacere che Artemisia invece resta, finalmente e giustamente, in ombra. Questa è una mostra che celebra suo padre ed è meglio che la figlia, di cui Orazio cercò sempre di liberarsi in vari modi, sposandola, mandandola dalla duchessa di Toscana, mandandola al diavolo, stia per una volta in disparte (anche se lei lo raggiunge a Londra nel 1638 più che altro per chiudergli gli occhi). E scopriremo che quel senso del viaggio, che rende Orazio errabondo anche per Roma, dove cambia casa spessissimo quasi che non riuscisse a trovare pace in nessun luogo (nel corso di questi viaggi si perdono anche i suoi disegni, diventati rarissimi), è metafora del camminare stesso per le strade di un mondo allora come oggi ostile e crudele. Secondo il biografo seicentesco Giulio Mancini, Gentileschi è stato uno di quegli artisti che avevano «operato con modo proprio e particolare senza andare per le pedate d’alcuno». Le sue tele, i dettagli di un «panneggio indossato, di un lenzuolo sprimacciato, una natura morta iniziale» rappresentano effettivamente nel primo Seicento una visione originale dell’arte. E, tornando a Longhi, ripenseremo che «in ogni suo quadro v’è almeno un angolo, un taglio di raso, una spalla soffiata d’ombra, una concola di luce che si isola e canta  come una nota strappata da un capolavoro». L’astratto e «superbo toscano che aveva visto tanta, troppa pittura tramontare sull’orizzonte del suo atelier» torna dunque a noi con una mostra memorabile e la seduzione operata dalla distanza stessa del tempo che ci separa da lui può fungere da stimolo e desiderio di meglio conoscere e comprendere una pittura che si dimostra sensibile a più chiavi di lettura. 

Orazio Gentileschi, «Giuditta e Abra con la testa di Oloferne», 1621-24 ca, Città del Vaticano, Musei Vaticani, Pinacoteca

Arabella Cifani, 21 novembre 2025 | © Riproduzione riservata

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