Se una mostra ha bisogno di un pretesto per essere realizzata, «Paolo Pellion di Persano: La semplice storia di un fotografo», nasce in seguito alla donazione, da parte degli eredi, dell’archivio del fotografo al Crri-Centro di Ricerca del Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea. Avvenuta nel 2023, comprende oltre 44mila negativi custoditi, dopo la morte del fotografo avvenuta nel 2017, dalla moglie e dai figli. Curata da Marcella Beccaria, vicedirettore del Castello di Rivoli e responsabile del Crri, e Andrea Viliani, direttore del Museo delle Civiltà di Roma e già responsabile del Crri nel biennio 2020-22, la mostra si apre in un momento estremamente propizio per la fotografia a Torino; parte della programmazione ufficiale del nuovo Festival di fotografia Exposed, è sostenuta da Strategia Fotografia 2023, bando promosso dalla Direzione Generale Creatività Contemporanea del Ministero della Cultura. Allestita nella Sala 18 al secondo piano del museo dal 21 aprile all’8 settembre, la mostra presenta un centinaio di fotografie, tra cui molti inediti che evidenziano il legame di Paolo Pellion con il mondo culturale e artistico della città e soprattutto con il Castello che ora custodisce un nucleo importante delle sue opere.
«Si può affermare che Paolo Pellion sia stato il primo biografo della storia del Museo d’Arte Contemporanea al Castello di Rivoli», spiegano i curatori. E in effetti, sin dalla prima esposizione del Museo, «Ouverture», nella sede allora appena restaurata dall’architetto Andrea Bruno, inaugurata nel 1984 (proprio quarant’anni fa), Pellion di Persano ha documentato l’attività del museo almeno fino al 2012. Di lui, ma soprattutto della sua fotografia, abbiamo parlato con Sebastiano Pellion di Persano, figlio e figlio d’arte, fotografo professionista, specializzato in opere d’arte, che segue in tutto il mondo i progetti espositivi delle grandi gallerie internazionali da più di 15 anni. Ci racconta di suo padre, del suo lavoro e della retrospettiva appena inaugurata al Castello di Rivoli: Paolo Pellion «è finito un po’ per caso nella fotografia, scoprendola negli anni Settanta durante i suoi viaggi in Oriente. I suoi primi contatti con il mondo dell’arte sono avvenuti attraverso Anna Peyron, sua cognata, amica e allora collaboratrice di Gian Enzo Sperone».
Dall’incontro con il grande gallerista torinese sono nate amicizie e lavori con gli artisti, durati tutta una vita.
Con Michelangelo Pistoletto ha lavorato a lungo realizzando, tra l’altro, tante fotografie usate per i suoi quadri specchianti. Un altro artista con cui ha collaborato molto è stato Giuseppe Penone. In mostra è esposta una serie di 12 fotografie, scattate tra il 1970 e il 1972 su richiesta di Penone stesso, per la realizzazione di lavori in cui si integra una riflessione sulla relazione tra corpo, scultura e fotografia. C’era un forte legame tra Giuseppe Penone e mio padre, che ha scritto: «Le fotografie che scattavo erano finalizzate alla realizzazione delle sue opere, ma molte rappresentavano anche il dietro le quinte del lavoro e acquistavano una loro autonomia oltre la loro funzione iniziale».
Gli artisti in quegli anni passavano molto tempo tra loro, lavoravano insieme e frequentavano gli stessi luoghi.
In questo contesto è nata una serie curiosa di fotografie che raffigura alcuni artisti nelle loro automobili: Gilberto Zorio nella sua Porsche con quella che sembrerebbe essere una cassa di vino sotto il braccio, Alighiero Boetti alla guida, ritratto di spalle mentre nel riflesso dello specchietto retrovisore si legge l’invito a una mostra da Franz Paludetto, Mario e Marisa Merz con la loro Fiat 124, Salvo che guida, fumando, con il braccio fuori dal finestrino e Pistoletto sulla sua Mercedes ricoperta di neve, a Sansicario.
Nella mostra al Castello di Rivoli compaiono anche gli scatti realizzati nella Sala Cinese del Castello. Paolo Pellion ha riunito, dal 1984 al 2012 circa, le immagini degli allestimenti più significativi realizzati in quel luogo, un documento straordinario che mette in risalto anche la forte presenza architettonica dello spazio.
Questa raccolta era un progetto nel cassetto degli ultimi anni della sua vita, ma non era mai arrivata l’occasione di mostrare queste immagini. Solo due scatti erano già stati esposti: quelli della «Venere degli Stracci» di Pistoletto raffigurata a distanza di dieci anni, nel 1998 e nel 2008, prima e dopo il restauro della sala, nello stesso luogo e con la stessa inquadratura. Gli altri scatti, una ventina, sono inediti, in formato più piccolo, per la prima volta allestiti in questa mostra, che vuole essere anche un’occasione per raccontare la storia del museo per i suoi quarant’anni.
Ma quale eredità può lasciare un padre a un figlio che decide di seguire le sue orme come fotografo?
Da lui ho imparato la serietà e la dedizione. Mi diceva: «Se prendi un lavoro, devi essere certo di realizzarlo al meglio, ma soprattutto, quando scatti con gli artisti devi sempre far parlare più le opere fotografate che la tua fotografia». Mi ha insegnato che la fotografia è un mezzo che si deve saper usare nel modo più neutro possibile per mettere in risalto l’opera. Era molto stimato come persona, un uomo pacato e paziente che teneva molto al risultato finale del suo lavoro. È stato un maestro, oltre che per la tecnica, soprattutto per il modo di rapportarsi con le persone; per lui era fondamentale il rispetto per gli artisti e per il loro lavoro. È stato molto bello poter condividere con lui l’inizio della mia carriera.