Nel 1999 l’artista belga Francis Alÿs (Anversa, 1959) ha realizzato un cortometraggio intitolato «Children’s Game #1: Caracoles». Il film ripercorre i tentativi, sempre più frustrati di un bambino di calciare una bottiglia di plastica mezzo piena su per una collina. Il bambino deve fare i conti con le automobili che passano, con i musicisti a piedi, con i cani impauriti, con le crepe e le erbacce che sconvolgono la superficie di cemento della strada. Nel frattempo, la bottiglia cambia direzione a seconda dei capricci, finché non sfugge al piede del bambino, che deve rincorrerla fino in fondo alla collina. Questa storia di quattro minuti ha portato Alÿs a compiere un viaggio di decenni per documentare i giochi dei bambini di tutto il mondo. Dalle sedie musicali in Messico al salto mortale in Iraq, dalla corsa delle lumache in Belgio alle nocche in Nepal, il risultato è un archivio del gioco come resistenza.
L’opera debutta a Londra con la mostra «Francis Alÿs: Ricochets», allestita nella Barbican Art Gallery dal 27 giugno all’1 settembre. Quando Alÿs ha presentato i giochi per bambini come tema del Padiglione belga alla Biennale di Venezia del 2022, ha descritto il desiderio di «riportare i bambini al centro della nostra attenzione» dopo l’isolamento durante la pandemia. A suo avviso, il lockdown ha visto i bambini soffrire ancora di più degli adulti. Ma, come chiarisce la curatrice della mostra, Florence Ostende, si tratta dell’unica opera per cui Alÿs spera di essere ricordato. La curatrice spiega che i filmati dei giochi per bambini sono in dialogo con 25 piccoli dipinti en-plein-air che Alÿs ha realizzato a partire dagli anni ’90. La galleria sta preparando un programma pubblico, sono state progettate sale giochi con Rafael Ortega, collaboratore di lunga data di Alÿs, ed è stata programmata una serie di conferenze e film.
Durante un incontro con le scuole, un bambino ha chiesto all’artista quale fosse il suo film preferito. La sua risposta è stata il cortometraggio di Abbas Kiarostami del 1970 «Il pane e il vicolo». Il racconto di Kiarostami segue un ragazzino che porta una grossa focaccia alla sua famiglia. Deve camminare in un vicolo, dove incontra un cane che abbaia e non lo lascia passare. Alla fine, il bambino dà al cane un boccone da mangiare e non si allontana più da lui. È una rappresentazione tenera, giocosa e microcosmica delle lotte quotidiane della vita. E la semplicità di questa trama condensata si accorda non solo con «Children’s Game #1» ma con l’intera opera di Alÿs, dall’uomo che spinge un blocco di ghiaccio per le strade di una città («Paradox of Praxis 1», 1997) alla volpe che cerca una via d’uscita nei corridoi deserti di un museo («The Nightwatch», 2004).
Alÿs ha iniziato a lavorare in modo concertato con i bambini nel 2008, durante la realizzazione di «Don’t Cross the Bridge Before You Get to the River», un ponte immaginario sullo Stretto di Gibilterra. Si riferiva a un’idea avuta a Cuba due anni prima, per creare un dialogo visivo tra due sponde su cui si gioca la tragedia della migrazione economica contemporanea. Ma la politica del mondo reale ha fatto sì che i Paesi in lotta in ogni contesto (Cuba e Stati Uniti, Spagna e Marocco) continuassero a cercare di boicottare l’opera. Alÿs non si è mai sottratto ai grandi problemi del nostro tempo. Questo è in linea con la storia del gioco. Nessuna opera lo dimostra in modo più toccante di «Children’s Game #19: Haram Football, Mosul, Iraq»: girato nel 2017 a Mosul, in Iraq, documenta un gruppo di ragazzi che giocano una partita di calcio tra crateri di bombe e carri armati. Non hanno un pallone e non c’è pubblico, ma i passaggi, gli applausi e l’euforia collettiva sono reali quanto la guerra, finché gli spari non fanno fuggire i bambini. Nell’evidenziare questa dualità, l’opera di Alÿs agisce quasi come una sorta di talismano, uno strumento vitale per resistere alle molte forze che sottraggono la nostra attenzione e la nostra creatività, la nostra linfa vitale.