Per quarant’anni Richard Prince si è costantemente appropriato di immagini tratte dalla cultura del consumo e ha scardinato qualsiasi nozione di autenticità dell’arte. Membro della Pictures Generation della fine degli anni Settanta a New York, che comprendeva anche artisti come Cindy Sherman e Louise Lawler, Prince è forse più noto per le sue «ri-fotografie». Per realizzare queste opere ha fotografato fotografie esistenti e le ha ingrandite; gli esempi più famosi di questo procedimento sono stati realizzati con le immagini dei cowboy delle pubblicità delle sigarette Marlboro.
Prince ha prodotto una vasta gamma di lavori attraverso i media, nei quali le banalità dell’intrattenimento, delle pubblicità, delle barzellette sui papà e del porno soft sono spesso trasformate in qualcosa di snervante ed erotico. Nonostante le numerose cause legali e le accuse di violazione del diritto d’autore, che sembrano rafforzare le sue argomentazioni sull’impossibilità di stabilire il concetto di «originalità» nella produzione culturale, Prince è più impegnato che mai a realizzare opere nel suo studio di Rensselaerville, a nord di New York.
Gli strumenti possono essere diversi (di recente si è rivolto a Instagram per trovare materiale) ma lo sberleffo è ancora lo stesso? La nuova mostra di Prince, «Same Man», in corso al Louisiana Museum di Humlebæk, in Danimarca, fino al 10 aprile, presenta 89 opere, di cui 60 su carta, ed è la sua prima personale in Danimarca.
Com’è nata questa mostra e perché allestire ora una selezione di disegni per la serie «Louisiana on Paper»?
I preparativi per la mostra sono iniziati prima dello scoppio della pandemia di Covid-19. La mostra è incentrata sulla presentazione del mio lavoro da parte di Anders Kold, il curatore, perché di solito sono io stesso a curare le mie mostre. Questa potrebbe essere solo la seconda volta che il mio lavoro viene esposto con un contributo minimo da parte mia. Ho sempre pensato che l’ideazione di una mostra specificamente dedicata a un solo medium sarebbe stata difficile. Dalla fine degli anni Settanta, la mia idea è sempre stata quella di creare diverse serie di lavori che avessero a che fare con un soggetto specifico (come il cowboy, l’infermiera o le serie di De Kooning), che si trattasse di scultura, fotografia o disegno. Prima venivail soggetto e poi l’interpretazione. Non avrei mai tentato di curarla da solo.
Perché ha deciso di intitolare la mostra «Same Man», prendendo in prestito il titolo di una sua opera («Untitled-Same Man Looking in Different Directions, 1977-78»)? Lei si sente lo stesso artista che ha iniziato a lavorare a New York negli anni Settanta?
Il titolo si riferisce alla questione della firma o dello stile di un artista, o piuttosto della loro assenza. Non voglio parlare di altri artisti, ma l’altro giorno stavo guardando un fantastico dipinto di Meret Oppenheim, in cui delle rocce surreali emergono dall’oceano («Stone Woman», 1938). Il fatto che abbia potuto fare questo e poi realizzare una scultura come la tazza da tè foderata di pelliccia («Object», 1936) è straordinario: sono della stessa donna, ma si potrebbe pensare che si tratti di due artisti molto diversi.
Io sono lo stesso uomo che va in studio ogni giorno e voglio sentirmi in grado di fare tutto quello che voglio. Posso lavorare a un’opera per quattro, cinque, a volte dieci anni e solo quando avverto una sorte di rivelazione so che è arte. Non so come lavorino gli altri artisti, ma sono stato felice di passare davanti alla sala di Sigmar Polke mentre andavo alla mia mostra qui al Louisiana. L’ho scoperto per la prima volta a metà degli anni Ottanta e ho sempre immaginato che Polke e Gerhard Richter avessero giornate simili alle mie: non erano governati da un particolare modo di lavorare o dal dover far sembrare qualcosa come un Polke o un Richter. Andavano in studio e scoprivano.
In un video che accompagna la mostra, l’artista danese Joachim Koester dice che spesso si ha la sensazione che qualcosa sia stato tralasciato nelle sue immagini dei cowboy. Afferma che «non c’è traccia del genocidio dei Nativi americani, né dei magnati, né delle industrie minerarie, forestali o petrolifere». Che cosa ha scelto di lasciare fuori dalle sue rifotografie di cowboy?
Non si trattava tanto di lasciare fuori quanto di lasciare dentro. È il contrario. Quando ho iniziato a rifotografare, non sapevo nulla della macchina fotografica. Lavoravo alla rivista «Time Life» e il mio compito era quello di assicurarmi che tutte le parti dell’immagine andassero alla persona che scriveva l’editoriale. Così, alla fine della giornata, dopo aver strappato le riviste, mi rimanevano le pubblicità. Erano proprio accanto a me. Quello che promettevano era qualcosa di impossibile, ma anche qualcosa in cui potevo credere.
A metà degli anni Novanta, lei ha creato una serie di opere composte da testo e immagini che presentavano vignette personali accanto a un ritratto e ai nomi di giganti dell’economia americana come Citibank o McDonald’s...
Questo fa parte del paesaggio americano, è il luogo in cui vivo. Quelle immagini e quelle parole sono ciò che si incontra ogni giorno. I ritratti danno una sorta di terreno che non è inventato, che esiste ed è reale. Sono personali, ma le parole sono già di dominio pubblico, fanno parte di ciò che tutti gli altri hanno già condiviso o criticato, e quindi hanno un loro sistema di credenze. Insieme hanno una sorta di verità elementare.
Che cosa intende per verità elementare?
Beh, ha un po’ di verità. In definitiva, ciò che mi interessa è l’accordo, che è un’emozione molto potente perché nella mia esperienza non ci sono molte situazioni in cui due persone sono d’accordo.
Mi sembra un’aspirazione molto sincera al fare arte, ma mi ricorda anche la sua opera «I’m not Linda» (1992), che raffigura un dialogo: «Ho aspettato all’angolo il mio appuntamento al buio. Quando è passata questa ragazza, le ho chiesto: “Sei Linda?ˮ. Lei ha risposto: “Sei Richard?”. Io ho risposto: “Sìˮ e lei: “Non sono Linda!ˮ». È un incontro divertente perché c’è accordo e disaccordo allo stesso tempo, o meglio un accordo basato su false premesse.
Non credo che tutte le mie battute siano necessariamente divertenti, ma le tratto come un altro argomento. È quello che succede quando ci si alza ogni giorno e si va in studio a lavorare. Si tratta sempre dell’eccitazione di andare in studio e non sapere che cosa farò quel giorno. Voglio essere in una posizione che mi sorprenda.
Negli ultimi anni il suo lavoro ha risposto alle strutture e all’autopresentazione dei social media, e i critici l’hanno etichettata come «l’artista di Instagram» per il modo in cui ha trasformato lo screenshot di Insta in un’opera d’arte. Chi è il suo pseudonimo Instagram «Joan Katz»?
Lo pseudonimo, il nome falso, mi ha sempre interessato. Si attinge a una parte di sé che in realtà non si vuole. È un modo per far uscire qualcosa che non faresti uscire in un altro modo. Per me i ritratti di Instagram o Instagram stesso sono solo un’altra rivista; lo uso come soggetto nello stesso modo in cui ho usato la rivista per più di vent’anni. Instagram, per me, è stato solo un modo per continuare l’idea di ritratto che ho sviluppato negli anni Ottanta. Non venivi più a sederti per farti fare il ritratto: mi davi cinque, sei o sette foto di te stesso che ti piacevano già e io ne rifotografavo una che mi piaceva e quella sarebbe stata il tuo ritratto. Gli strumenti erano facili da usare.
Il salvataggio delle immagini funziona in modo simile, ma questa è stata una rivelazione per me. E l’idea di memorizzare le immagini sul telefono in una griglia mi ha ricordato i ritratti di gruppo che facevo. Ero ossessionato dall’idea di poter fare un ritratto di qualcuno che conoscevo o quasi o che volevo conoscere. Sono tutte cose che mi attraggono in un certo tipo di ritratto, e quindi è quello che ho fatto. È lo stesso motivo per cui a volte prendo una penna a sfera e faccio un disegno su un pezzo di carta, perché non c’è alcun mistero.
Non sto cercando di ingannare nessuno. È praticamente la stessa cosa che lavorare sul telefono, che considero un’estensione dello studio. Ho un termine che si chiama «post-place» e credo che sia il luogo in cui trascorriamo la maggior parte del nostro tempo intimo. Puoi essere ovunque, in qualsiasi momento e in qualsiasi circostanza. Potrei farti un ritratto su Instagram proprio adesso, mentre parliamo. Mi piacciono questi vantaggi. È così che voglio passare la mia giornata. È un ottimo modo per aggirare la fatica, no?