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Tyler Mitchell, «Motherlan Skating», 2019

Courtesy of the artist and Gagosian Gallery. © Tyler Mitchell

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Tyler Mitchell, «Motherlan Skating», 2019

Courtesy of the artist and Gagosian Gallery. © Tyler Mitchell

Tyler Mitchell al Photo Elysée: un viaggio tra identità e utopia black

Il lavoro del fotografo americano ridefinisce la narrazione visiva della comunità nera tra resilienza, memoria e sperimentazione. Una sua mostra è ora ospitata nel museo di Losanna

Salito alla ribalta come fotografo di moda (è stato il primo fotografo nero a scattare una copertina per «Vogue» America, nel 2018), oggi l’americano Tyler Mitchell, rappresentato da Gagosian, non è più una giovane scommessa nel mondo dell’arte, ma un artista maturo che ha saputo creare una propria cifra stilistica attorno a temi quali l’utopia, la resilienza e l’autodeterminazione. Parole e concetti che nelle sue opere si traducono in un ritratto composito e plurale dell’esperienza black, per secoli schiacciata da stereotipi e narrazioni semplicistiche. Fino al 17 agosto il lavoro di Tyler Mitchell è esposto al Photo Elysée di Losanna, nella mostra «Wish This Was Real», curata da Brendan Embser e Sophia Greiff. Dopo le tappe di Berlino e Helsinki nel 2024, l’esposizione raggiunge la Svizzera, prima di venire presentata a Parigi nell’autunno del 2025. Abbiamo parlato con l’artista per conoscerlo meglio.

A che cosa fa riferimento il titolo della mostra?

È un augurio nel senso più stretto del termine, un’interpretazione aperta a qualsiasi cosa che lo spettatore possa proiettarci sopra. Però, dal mio punto di vista, ha a che fare con la creazione visiva, la fotografia, le identità e le falsità, le finzioni e i costrutti di realtà che si trovano all’interno di tutte queste idee.

Oltre ai suoi lavori, sono esposte anche le opere dei suoi «maestri» come nella tappa di Berlino? 

Sì, ma per Photo Elysée la sezione «Altars/Acres» è stata ripensata. Frutto di una collaborazione tra Brendan Embser, Hannah Pröbsting e il mio studio, questa sezione riunisce opere che mettono in luce i contesti artistici e storici che influenzano la mia pratica. La selezione comprende Rashid Johnson, Hugh Hayden, Dawoud Bey, Carrie Mae Weems, Gordon Parks, i Gee’s Bend Quilters, Garrett Bradley e altri ancora. L’obiettivo è creare una conversazione dinamica tra le mie opere e le loro, collocando le mie immagini in un più ampio continuum della cultura visiva nera e della storia della fotografia.

Ha iniziato a lavorare nel settore come fotografo di moda. Che cosa l’ha spinta a scegliere questa strada all’inizio della sua carriera?

Mi sono trasferito a New York per studiare cinematografia, ma durante gli studi sono diventato sempre più entusiasta della fotografia come mezzo più immediato per entrare in contatto con la cultura. Una singola immagine poteva raccontare una storia visiva potente in un istante, e ne ho riconosciuto il potenziale. La fotografia di moda, in particolare attraverso le pagine delle riviste e le piattaforme digitali, è diventata uno spazio in cui ho potuto esplorare idee di identità, desiderio, storia e memoria, spesso in modi che hanno avuto un’ampia risonanza e suscitato conversazioni.

Come si è avvicinato al mondo dell’arte? 

In un certo senso è stato il mondo dell’arte ad avvicinarsi a me, o forse è stato un incontro di gravitazioni reciproche. Non avendo una formazione accademica in belle arti, sono sempre stato curioso di capire che cosa significasse esporre il mio lavoro in gallerie e musei. Il primo passo rilevante è stato partecipare a una call aperta presso l’Aperture Foundation di New York e con mia sorpresa sono stato selezionato. Quel riconoscimento è stato fondamentale. Poco dopo, il Foam di Amsterdam mi ha invitato a fare una mostra personale, un’esperienza che mi ha emozionato ma anche intimorito. In quel momento ero preoccupato di venire giudicato come «fotografo di moda» che cercava di presentare il suo lavoro come arte. Ma ho deciso di fare il salto, pensando: «Perché non provarci? Tanto ad Amsterdam nessuno mi conosce!». La mostra è stata accolta con entusiasmo, con un’inaugurazione gremita di gente e un profondo coinvolgimento del pubblico e della città. Quell’etichetta di fotografo di moda mi segue ancora, come un profumo stantio, ma non me ne preoccupo. Si può scegliere di essere appesantiti da un’etichetta, oppure si può semplicemente proseguire, concentrandosi sul lavoro e cercando di realizzare mostre che siano veramente significative e di grande impatto.

In che modo il suo interesse varia quando lavora a una mostra, a una rivista o a una pubblicità commerciale? 

Trovo entrambi i mondi altrettanto affascinanti, ma in modalità diverse. All’inizio temevo il modo in cui sarebbe stato percepito il mio oscillare tra il mondo della moda e quello delle belle arti. Ora, abbraccio la fluidità che esiste tra di essi. Il principale limite è il tempo, e man mano che la mia carriera si sviluppa, mi sono naturalmente orientato sempre più verso progetti espositivi, gallerie e musei, che mi regalano una gioia immensa. La fotografia è un mezzo straordinariamente versatile, come un coltellino svizzero: ha la capacità di fare molto più della pittura, per esempio, perché esiste all’intersezione tra documentazione, narrazione e materialità.

Con il tempo il suo lavoro è diventato più scultoreo e ha iniziato a sperimentare la materialità della fotografia. Quando e perché è avvenuto questo cambiamento?

È stata un’evoluzione naturale e profondamente gratificante. Cerco sempre di creare una relazione fluida tra immagine, contenuto e forma, dove il materiale stesso contribuisce in modo sostanziale al significato dell’opera. Questa concezione è emersa per la prima volta durante la mia personale all’International Center of Photography di New York, la mia prima esposizione museale nella mia città natale. Uno degli spazi espositivi era un corridoio di 18 metri lungo e stretto, troppo angusto per le tradizionali stampe incorniciate. Ho dovuto ripensare a come le immagini potessero esistere nello spazio e da qui è nata l’installazione «Laundry Line». Ho stampato ritratti su tessuto e li ho appesi lungo il corridoio, evocando temi come lo spazio domestico della comunità nera, il lavoro, la cura e il significato culturale dei tessuti. Il tessuto e il bucato erano già un motivo ricorrente nella mia fotografia, quindi questo passo successivo mi è sembrato del tutto naturale. Questo gesto mi ha aperto una nuova prospettiva: non riuscivo più a ignorare il potenziale della fotografia oltre la cornice. Da allora, ho continuato a perfezionare questa esplorazione, cercando i modi per rendere la relazione tra fotografia e oggetto più intenzionale e significativa.

Come crea le sue immagini? Quali principi guidano le sue decisioni, sia a livello tematico che estetico?

È una bella domanda. Al centro del mio lavoro ci sono il desiderio e l’istinto di esplorare la molteplicità dell’identità black: l’autodeterminazione, l’agency, la trascendenza, l’empowerment e i rapporti di solidarietà. Queste idee mi guidano in ogni fase della creazione delle immagini.

In quali progetti è impegnato?

Al momento, il mio principale obiettivo è la mostra in Svizzera. Dopodiché, «Wish This Was Real» si sposterà alla Maison Européenne de la Photographie di Parigi a ottobre, per poi arrivare a Vienna nella primavera del 2026. Recentemente, ho anche fotografato una nuova serie per la prossima mostra del Met Costume Institute, «Superfine: Tailoring Black Style», un importante progetto che esplora la storia del dandismo nero e dell’abbigliamo maschile.

Rica Cerbarano, 13 aprile 2025 | © Riproduzione riservata

Tyler Mitchell al Photo Elysée: un viaggio tra identità e utopia black | Rica Cerbarano

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