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Una veduta di «The House of Dorothy» di Vincent Grange all’Istituto Svizerro, Milano

© Souplex Atelier

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Una veduta di «The House of Dorothy» di Vincent Grange all’Istituto Svizerro, Milano

© Souplex Atelier

Vincent Grange ha costruito «The House of Dorothy»

Nella mostra personale all’Istituto Svizzero di Milano le stanze restituiscono il racconto di simboli, eventi e luoghi storici della comunità Lgbtqia+

All’interno di un cortile nel centro di Milano, su cui affacciano uffici patinati, in mezzo a un continuo via vai di eleganti impiegati, spicca un cartello demodé, dalle proporzioni un po’ goffe, che indica «The House of Dorothy». Attraverso le vetrate che affacciano sul cortile, si intravede un ampio spazio che contiene una struttura somigliante a un’enorme cassa da imballo. Una volta dentro, prendiamo le misure di un’architettura che ci fa sentire nel backstage di un teatro: un insieme di pannelli e traverse di legno che tengono su una struttura. 

Alla «casa» si accede per mezzo di un piccolo passaggio, per attraversare il quale si deve stare carponi. Mi ha ricordato i tanti tentativi fatti da bambina di costruire una casetta tutta per me: con legni più o meno grezzi, lenzuola, grossi cartoni in cui si doveva sempre entrare più o meno accucciati, manifestazione del desiderio di costruire un posto tutto mio, all’interno del quale mi sentivo protetta. 

Dopo aver camminato in ginocchio per qualche metro, si arriva in un interno domestico un po’ âgée, con carte da parati e mobili che ci portano indietro di qualche decennio. Qui, le stanze restituiscono il racconto di simboli, eventi e luoghi storici della comunità Lgbtqia+, che sono custoditi in spazi in cui risuona una playlist di canzoni iconiche, che sembrano accompagnare la presenza di una «mother» Dorothy che potrebbe essere nella camera accanto. 

Attraverso una grata sul soffitto che ci proietta subito sottoterra come in un rifugio clandestino, si intravede un lampione a cui è appeso un paio di scarpe rosse con paillette: sembrano quelle che si materializzano ai piedi di Dorothy/Judy Garland quando, nel «Mago di Oz», uccide, schiacciandola con la sua casa, la Strega dell’Est. Queste sono un accessorio magico, vistoso e riconoscibile, che conferisce alla giovane il ruolo di eroina e che, portate ai piedi per tutto il cammino sul sentiero dorato, la fanno assurgere a guida per un gruppo composto da personaggi indimenticabili: lo Spaventapasseri senza cervello, il Leone privo di coraggio e l’Uomo di latta senza un cuore, stigmatizzati perché privi di caratteristiche normotipiche. Sono quelle scarpe magiche il mezzo che la riporterà a casa, battendone insieme i tacchi per tre volte: la ragazzina, come gli altri personaggi, ha sempre avuto con sé la soluzione al proprio desiderio e, grazie al supporto del gruppo con cui ha percorso le sue avventure, ha ritrovato casa. Quelle scarpe vistose, appese al lampione sopra questa grande scatola scenica, sono lì a indicare un posto sicuro, il luogo in cui è «casa». 

Una veduta del cartello posto all’ingresso della mostra «The House of Dorothy» all’Istituto Svizzero, Milano. © Giulio Boem

Una veduta di «The House of Dorothy» di Vincent Grange all’Istituto Svizerro, Milano. © Souplex Atelier

Il riferimento diretto per Grange sono le «house» della ballroom culture nate nella New York degli anni Settanta e Ottanta: la House of LaBeija, la House of Xtravaganza, e tante altre, di cui lə nuovə figliə adottano come cognome il nome della casa. Figure di famose trans come Crystal LaBeija o Angie Xtavaganza diventano le «madri» di nuclei famigliari non biologici, rifugi protetti e carichi di amore per chi veniva allontanatə dalle proprie famiglie. Nella casa tirata su da Grange, il riferimento a queste famiglie è una parete piena delle tacche con cui qualcuno ha misurato la crescita dei tanti componenti, un gesto di una tenerezza e intimità struggenti. «The House of Dorothy» è un rifugio e Dorothy è una figura che, come nel film, raccoglie intorno a sé lə «diversə», supportandolə ed essendone supportata. La scelta del nome «Dorothy» è un riferimento al modo di dire «friends of Dorothy», utilizzato, dagli anni Cinquanta negli Stati Uniti, dalla comunità gay, poi Lgbtqia+, per riconoscersi. 

«The House of Dorothy», mostra personale dell’artista svizzero Vincent Grange (Ginevra, 1997), a cura di Lucrezia Calabrò Visconti, è visitabile fino al 3 luglio presso l’Istituto Svizzero di Milano. Il progetto, come si legge nel sito dell’artista, ha preso forma per la prima volta nel 2023, alla Haute Ecole d’Art et Design of Geneva, e negli anni ha continuato ad arricchirsi di immagini e declinazioni.

Nell’installazione milanese sono stati aggiunti riferimenti al contesto locale: i fatti della piscina pubblica Lido di Milano, del 4 luglio 1984, ovvero la prima protesta pubblica in Italia realizzata da persone trans, è ricordata dalla presenza di 15 reggiseni di costumi appesi nel bagno della casa, e all’ingresso dello spazio, accanto all’accesso dell’installazione, c’è un grande poster: il Gioco dell’oca di Dorothy. Questo intervento grafico ricorda il Gioco dell’oca milanese uscito nel 1982 come allegato a «Babilonia», storica rivista queer della comunità gay del tempo, in cui venivano indicati i luoghi di cruising e quelli più o meno sicuri della città per la comunità gay. Nella versione realizzata dall’artista per la mostra, nelle caselle sono inseriti riferimenti alla storia e cultura queer presenti all’interno della casa che è lì accanto, fornendo informazioni utili per non lasciar cadere nell’oblio esperienze sorte in contesti costretti al silenzio e alla marginalizzazione.

Una veduta di «The House of Dorothy» di Vincent Grange all’Istituto Svizerro, Milano. © Souplex Atelier

Matilde Galletti, 18 giugno 2025 | © Riproduzione riservata

Vincent Grange ha costruito «The House of Dorothy» | Matilde Galletti

Vincent Grange ha costruito «The House of Dorothy» | Matilde Galletti