Ludovica Carbotta è nata a Torino nel 1982. Ha studiato all'Accademia Albertina di Belle Arti di Torino e poi a Londra. Vive a Barcellona e dal 15 aprile al 6 ottobre è alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo con la personale «Monowe».
Che cos'è «Monowe»?
È un progetto iniziato nel 2016. È il nome di una città immaginaria: «Mono noi». Nasce dalla riflessione sull’isolamento e l’individualismo in cui viviamo, specialmente nelle grandi città. L'idea mi è venuta a Londra. Per giorni interi mi capitava di non parlare e non avere contatti con le persone. Al supermercato c’era la cassa automatica, nella metro non si interagiva. Lavoravo nello studio di un artista, ma perlopiù stavo da sola a scrivere email. «Monowe» è un estremo, un paradosso: una città con un unico abitante. Una città sopraelevata rispetto a quella in cui viviamo, un suo riflesso.
Qual è stato il primo pezzo?
L’ingresso, fatto a Bologna per un progetto di arte pubblica nel Parco del Cavaticcio. Il parco era stato progettato da Aldo Rossi per unire due zone della città divise da un canale interrato, nella sua idea c’era un ponte mai realizzato. Io ho fatto due installazioni: un principio di lavori della città di Monowe. Una scala di entrata, realizzata dove sarebbe dovuto sorgere il ponte, e un pilone di sostegno. Due forme incomplete in un cantiere abbandonato.
Nella città di Monowe c'è anche un museo
Valutati i lati negativi dell’autoisolamento sono passata a quelli positivi, alla possibilità di ripensare le regole che seguiamo perché siamo dentro una società. Le istituzioni sono la materializzazione del processo mnemonico dell’unico abitante. Il museo di Monowe è nato al MaXXI. La struttura è ispirata alle caserme demolite per costruire il MaXXI. Le loro forme riapparivano nella mia installazione, creando un’intersezione tra architettura reale e immaginaria. Le sculture del museo di Monowe (reinterpretazioni di sculture storiche in vari materiali), cambiavano forma per l’azione dell’abitante, interpretato da un’attrice, materializzando il tentativo di ricordarsi quelle forme. Come quando si racconta più volte lo stesso episodio aggiungendo o dimenticando qualcosa.
Che cosa espone nella Fondazione Sandretto?
Un resoconto di tutti i capitoli fatti finora, presentati in tre scale diverse, come tre livelli di zoom su una mappa. Ci sarà un frammento di un nuovo capitolo: il Tribunale; e altri tra cui la casa dell’abitante, la torre di controllo (abbandonata) dei confini della città, l’ingresso, il laboratorio e il museo.
Anche nella comunità di artisti c’è individualismo?
Sì. C’è competizione, si lavora da soli e con sé stessi (la parte bella della solitudine). Il sistema dell’arte impone ritmi impegnativi: si sta a lungo da soli in contesti sconosciuti, le relazioni sono virtuali con amici lontani.
Anticipazioni sulla sua partecipazione alla Biennale di Venezia?
Sarò nella mostra internazionale con due installazioni inedite del progetto «Monowe», una all’Arsenale e una a Forte Marghera, nell’ex polveriera austriaca.