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Micaela Deiana
Leggi i suoi articoliIl mondo brucia e, concentrati su altri più cruenti conflitti, è facile dimenticarsi della tensione costante in cui vive l’isola di Taiwan, la cui indipendenza è sotto minaccia dalla Cina, che rifiuta di riconoscerne la sovranità. «Whispers on the Horizon», la 14ma Biennale di Taipei (fino al 29 marzo 2026), sembra voler creare un cerchio di calma, con confini netti a proteggere il visitatore, e forse anche gli artisti stessi, dal rumore costante di una violenza silenziosa che può destabilizzare il nostro sistema nervoso. Impeccabile nell’esposizione, bilanciata nel ritmo e con qualche nota poetica, la mostra ci regala qualche ora di autoregolazione emotiva, uno spazio sicuro che non nega la realtà, ma in qualche modo ne ovatta la percezione, alzando le protezioni perché la riflessione possa essere accompagnata con la cura riservata a ciò che è fragile. Un ruolo nella creazione di quest’atmosfera va sicuramente riconosciuto all’ariosa architettura del Taipei Fine Arts Museum, realizzata negli anni Ottanta dall’architetto modernista Kao Er-Pan, con linee pulite che ruotano attorno a un cortile verde centrale e ampie vetrate sul quartiere.
I curatori Sam Bardauoil e Till Fellrath accordano i lavori sul motif del desiderio, esistenziale più che carnale, e sulla tensione che muove le anime che guardano verso l’orizzonte. Un tema universale che si intreccia al locale, grazie al regolare contributo, lungo il percorso, delle opere della collezione permanente del museo.
Nel catalogo ci raccontano come l’intensa attività di ricerca che ha costituito le fondamenta della mostra possa essere sintetizzata in tre oggetti: un pupazzo, un diario, una bici rubata, incontrati nella produzione cinematografica e letteraria (rispettivamente i film «Il burattinaio» di Hou Hsiao-Hsien e «Mio fratellino Kangxiong» di Chen Yingzhen, e il libro La bicicletta rubata di Wu Ming-Yi). Questi sono diventati simboli dei cambiamenti sociali che hanno attraversato la Taiwan nel Novecento, oggetti che custodiscono la memoria e, insieme, il desiderio di cambiamento. I curatori ne hanno ritrovato l’eco nella collezione fotografica del museo e, in ciascuna delle tre sezioni della mostra, ritroviamo, come in una trilogia, tre scatti che restituiscono un distillato di visi e scene dal carattere intimo, ma che fanno intuire la macrostoria che i personaggi animano.
Fra le 150 opere esposte, emergono due lavori video, potenti nell’incarnare il desiderio, seppur muovendosi su traiettorie antitetiche. Da una parte, «Love After Death» di Korakrit Arunanondchai, una seducentemente aggressiva installazione multimediale che ruota intorno alla perdita e alla rinascita, fra memoria e sogno, fra luoghi abbandonati e scimmie che incarnano gli antenati di Lopburi, villaggio della Thailandia. Dall’altra, il coreano Young-Jun Tak, con un multicanale in cui quattro opere di video danza si alternano per raccontare il confronto, che rimane fluido e poetico persino quando il contesto lo vorrebbe stridente, fra generazioni, luoghi e generi sessuali, grazie ai danzatori che condividono il processo che porta alla liberazione dalle aspettative sociali attraverso il movimento.
Edgar Calel, «K’obomanik (Gratitude for everything that lights up and turns off before our eyes)», 2025. Courtesy of the artist, Mendes Wood DM, Sao Paulo; and Proyectos Ultravioleta, Guatemala City, Commissioned by Taipei Biennial 2025. Image courtesy of Taipei Fine Arts Museum
Young-jun Tak, «Love Was Taught Last Friday (Still)», 2025. Courtesy of the artist, Commissioned by Singapore Biennale 2025 and Taipei Biennial 2025, Supported by Medienboard Berlin-Brandenburg. This work has been made possible with the generous support of Sunpride Foundation
In mostra sono presenti anche diversi spazi abitabili, che invitano a una fruizione più lenta e immersiva. Al Dhaheri utilizza le corde per creare un imponente ambiente-guscio che abbraccia e calma il visitatore; Fatma Abdulhani un giardino di basilico e drappeggi serigrafati che richiama tradizioni familiari nel gestire le emozioni. Anche Wang Hsian Lin crea un giardino, sfruttando il verde della corte interna del museo e disegnando un paesaggio sonoro epico che si ispira a «Parsifal» di Wagner per intrecciare l’opera con i suoni della vita quotidiana. Per Mohammad Al Faraj, immagini fotografiche e materiali naturali, come foglie di palma e tracce di carbone, compongono, intorno a un ambiente sabbioso, un racconto privo di elementi sonori ma capace di evocare la tradizione orale di una comunità. Fuyuhiko Takata crea invece un’alcova dove, abbandonati fra cuscini, assistiamo a due uccellini che cinguettano fiabe sensuali all’orecchio di un ragazzino, lasciando che la tematica queer emerga attraverso la sensualità, l’ironia e la letteratura.
Sia la direttrice del museo sede della Biennale, Li-Chen Loh, sia i curatori, sottolineano come il desiderio evocato e ricercato nel dare forma alla narrazione curatoriale attraversi spazi e tempo. È probabilmente proprio la scelta di ancorare la mostra a un sentimento così umano, che dà speranza per un futuro incerto e fragile, che accomuna tante situazioni differenti e quindi permette di tenere in equilibrio i lavori di Anna Jermolaewa e Tobias Zielony, che aprono lo sguardo sulla caduta del blocco sovietico, l’installazione di Nari Ward che monumentalizza la cultura popolare jamaicana, o la scultura di Hera Büyüktasciyan, che con un tappeto richiama il polgrom della comunità greca nella Istanbul degli anni Cinquanta.
Ci sono lavori più direttamente politici, come le «Cellules» di Mona Hatoum: otto gabbie al cui interno sono imprigionati corpi di vetro stralucenti che premono contro il metallo, in un tentativo irrisolto di fuga, a rievocare l’esperienza nei rifugi durante i conflitti in Libano, dove l’artista è cresciuta. O «Still my Eyes Water» di Omar Mismar, che crea un enorme bouquet di fiori artificiali ispirato al libro Fiori della Palestina, compendio del missionario svizzero Hannah Zeller del 1870, che combina interesse scientifico e sguardo coloniale. Anche in questi casi, il registro rimane simbolico ed evocativo.
Diffuso è il senso di spaesamento e sradicamento, geografico ed emotivo, che oggi attraversa tante comunità sociali in diverse parti del mondo e, forse, in Taiwan, con il suo aver conosciuto la colonizzazione olandese, cinese e giapponese, sa farsi casa di questo bagaglio.
Non stiamo parlando solo di macrostorie sociali, ma anche di microstorie personali: che cosa significa fare arte e trattare la tematica queer quando sei nato in Taiwan e vivi negli Stati Uniti (come Skyler Chen) o sei figlio di migranti greci e vivi in Germania, paradossalmente ospite di entrambe le culture come Kiriakos Tompodis? Il tema delle contraddizioni identitarie che a volte è frutto di letture indotte, come vediamo nell’installazione di Gaëlle Chiosne, franco-haitiana, che gioca con il simbolo del biscotto della fortuna, considerato figlio della tradizione cinese e che, di fatto, è un’invenzione americana. Quanto facilmente i simboli vengono trasformati e quanto pesano sulle spalle di chi indaga la propria identità ogni giorno?
Per Fran Chang, che vive e lavora a San Paolo, il primo viaggio nella nativa Taiwan è stato quest’anno. Il trittico su seta «Nothing is Really Beautiful but Truth» è una pittura delicata ed evocativa, un’alba su un’identità di cui (ri)appropriarsi. È un paesaggio marino con un orizzonte atmosferico, ma sembra davvero incarnare quella sognante speranza per il domani che accomuna tanti degli artisti della mostra e, probabilmente, noi tutti, anche quando cresciamo nel luogo che, sin da bambini, abbiamo chiamato casa.
Hsiao Yung-Sheng, «Sergeant and His Younger Brother», 1981, collezione Taipei Fine Arts Museum
Skyler Chen, «Finally, My Banquet on the Street», 2025. Courtesy of the artist