Roma. Dall’11 febbraio al 2 giugno una mostra a Palazzo delle Esposizioni di Roma illustra, con 60 opere dal 1959 al 2016, il multiforme mondo espressivo di Jim Dine. Nato nel 1935 a Cincinnati, l’artista americano è stato tra i pionieri dell’Happening e della Pop art, per quanto con una sensibilità neo Dada che lo portava a inserire oggetti in opere pittoriche, sull’esempio dell’amato Picasso, ma anche dei Combine Painting del collega Rauschenberg. Nel suo stile intreccia elementi astratti, figurativi e fantastici, ispirato a un principio di libertà che è il suo marchio fondamentale. Ne parliamo con la curatrice della mostra, Daniela Lancioni.
Com’è nata questa mostra, e perché?
Da tempo l’Azienda Speciale Palaexpo accarezzava l’idea di dedicare una mostra antologica a Jim Dine nell’ambito di uno dei nostri approfondimenti sulla storia della cultura visiva contemporanea. La scelta di Dine è dovuta all’inossidabile potenza del suo lavoro, al grande interesse che negli anni Sessanta suscitò in Italia, ma anche al fatto che, nonostante la sua notorietà, rimane a tutt’oggi un artista difficilmente classificabile, una voce isolata, un autore autenticamente indipendente.
La mostra è stata realizzata in stretta collaborazione con l’artista: qual è stato il suo contributo specifico?
Grazie a lui abbiamo ottenuto dal Centre Pompidou il prestito delle trenta opere recentemente donate dall’artista al museo francese. Sin dall’inizio il progetto della mostra è stato condiviso con Jim Dine. Ci sembrava importante dare spazio ai suoi esordi raccogliendo, tra le altre, le opere esposte nella Biennale di Venezia del 1964, e Dine ha reso possibile inserire in mostra il suo capolavoro di quel periodo «Four Rooms». Ci ha permesso, inoltre, di documentare gli happening in una maniera speciale, con un racconto che i visitatori potranno ascoltare direttamente dalla sua viva voce e ha ideato un finale di grande impatto, autenticamente «immersivo», con la folla dei «Pinocchio», opere che fanno capo alla produzione degli ultimi anni.
Dine ha più volte dichiarato di non amare le classificazioni storico-critiche: come definirebbe la sua poetica complessiva?
Cito quello che scrisse ormai tanti anni fa Lucy Lippard: «Jim Dine fa parte di una corrente composta da un solo artista: Jim Dine». Per una volta invitiamo a rinunciare alle definizioni e suggeriamo un glossario: facce, attrezzi (i genitori dell’artista avevano un negozio di ferramenta e nelle sue opere gli utensili diventano protagonisti), abiti, scarpe, color chart, tavolozze, accappatoi, cuori, Veneri, Pinocchi, autoritratti e soprattutto pittura.
È nota la sua fascinazione per l’antico e per l’arte greco-romana: come Twombly, anche lui cerca le sue radici ideali nel classico?
L’impressione è quella di un uomo che frequenta da sempre poesia, letteratura, musica, pittura, scultura di ogni epoca e latitudine, sentendosi però radicato soprattutto nella cultura mediterranea.
Mi descriverebbe la sua personalità?
Un’adesione incondizionata al proprio lavoro e un grande rispetto per quello degli altri, ma meglio lo descrive il titolo del doppio autoritratto che conclude la mostra romana: «Two Large Voices Against Everything».
Dine non ha mai nascosto il suo amore per la pittura di Morandi e per i «Sacchi» di Burri. Per lei sono rintracciabili nella sua arte i segni di questa passione?
Assolutamente sì. Detto in due parole, nell’appropriarsi del mondo attraverso la pittura come Morandi e nel trasformare il mondo in pittura come Burri.
Che significato ha, all’interno del suo percorso professionale di storica dell’arte, questo incontro con il mondo di Jim Dine?
Ho avuto la fortuna di collaborare con Paola Bonani, Francesco Guzzetti, Annalisa Rimmaudo e Claudio Zambianchi che hanno scritto per il catalogo e con i quali ho avuto proficui scambi. Da parte mia, tra gli innumerevoli mondi ai quali apre il lavoro di Jim Dine, sono felice di aver potuto osservare da vicino una delle più significative metamorfosi della pittura del Novecento.