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Dagli Appennini a Minneapolis: Vincenzo de Bellis

Il racconto di un «migrante» nominato curatore di uno dei primi 10 musei del mondo nella città più colta e green degli Usa, la stessa in cui la polizia ha ucciso un giovane afroamericano per un reato da 20 dollari

Vincenzo de Bellis

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Credo che l’America che conoscevo non esista più. E credo che non tornerà. Ma non è detto che non ne nascerà una migliore anche se ci vorranno talmente tanti anni che forse mio figlio, quando sarà in età matura, potrà esserne testimone.

Questo che state leggendo è il primo pezzo di un diario che mi è stato chiesto di scrivere per raccontare la mia vita professionale (e privata) negli Stati Uniti. E allora, come in una serie televisiva, creiamo una voce narrante alla prima persona singolare, poi una dissolvenza, il video che va in bianco e nero, che ci dice che non siamo nel tempo presente, e iniziamo a raccontare perché sono finito negli Stati Uniti a lavorare, prima come curatore e ora come direttore associato dei Programmi del Walker Art Center di Minneapolis a partire dal 2016.

Per uno come me, che viene dal profondo sud d’Italia ed è nato nel 1977, l’aspirazione a realizzarsi, a diventare qualcuno che merita di essere ricordato, è stata sempre legata alla mitologia degli Stati Uniti. I film, la musica, certi sport, certa moda, nella mia testa di ragazzino prima e teenager poi, provenivano da un immaginario quasi esclusivamente americano. Si è da sempre inculcata in me la convinzione che per realizzare i miei sogni avrei dovuto trasferirmi lì, perché quella era la terra delle possibilità, della meritocrazia, del sogno americano che tutti quanti possono realizzare.

A questo punto di questo articolo e della storia avrò forse perso già l’attenzione di molti dei lettori raffinati di «Il Giornale dell’Arte» che non avranno, giustamente, pazienza nel leggere una serie di quelle che ritengono, forse a ragione, banalità e ovvietà scritte, dette e ridette da milioni di persone. Ma li prego di avere un briciolo di pazienza perché spero nel prosieguo di questo pezzo di scrivere qualcosa che non sanno già.

Per tutte le ragioni sopra elencate sono andato a specializzarmi negli Stati Uniti non appena ne ho avuto la possibilità, grazie a un bando pubblico della Regione Puglia (sotto la presidenza di Nichi Vendola) intitolato «Bollenti Spiriti» che metteva a disposizione dei laureati pugliesi e/o residenti in Puglia delle borse di studio fino a 25mila euro per supportare master e dottorati all’estero. Io ero già stato ammesso al Master in Curatorial Studies del Center for Curatorial Studies del Bard College, la scuola di studi curatoriali più prestigiosa al mondo, subito fuori New York e con questa borsa, più un’altra ricevuta dal Bard College, e un prestito bancario di Banca Sella ripagato in 10 dolorosissimi anni, sono partito nel 2006 per provare a realizzare quel sogno di cui parlavo prima.

Avrei già dovuto capire, ma ero accecato dalla felicità di quello che a tutti gli effetti era un inaspettato traguardo (solo 10 studenti da tutto il mondo), che il primo problema degli Stati Uniti è proprio il sistema scolastico e quindi universitario. Ma di questo parlerò nelle puntate successive.
Non vi tedierò con la storia dei miei quasi tre anni tra il 2006 e il 2009, ma vi posso dire che sono stati anni durissimi (vi sfido a studiare Platone e Kant in inglese) e altrettanto straordinari.

Posso certamente dire che per i primi quattro mesi non ho mai disfatto la valigia perché avrei voluto mollare e tornare a casa, ma posso anche dire che il non averlo fatto mi ha reso una persona molto meno fragile di quanto non fossi e mi ha dato la forza di ripartire tutte le volte, e sono state già diverse, che sono ripartito.

Sono stati anni che mi hanno, sinceramente, cambiato la vita ed è una scelta educativa, professionale e personale che rifarei senza nessun dubbio. La crisi bancaria del 2008 però e la conseguente crisi economica di molti musei americani, che dipendono totalmente dal successo o meno dell’economia interna e per questo hanno subito dei tracolli finanziari molto più forti di quanto accaduto a causa della pandemia di Covid-19, rendevano impossibile per me anche solo cercare un lavoro in quel momento.

Per questo sono tornato in Italia e ho cercato lavoro, ma anche in questo caso, niente da fare. Nemmeno uno stage gratuito. A quel punto, ho deciso, anzi abbiamo deciso con quella che poi sarebbe diventata mia moglie, che, se nessuna istituzione si interessava a me, io quella istituzione me la dovevo creare. Già, in pochi sanno la verità su come è nato Peep-Hole, il piccolo (poi non troppo) centro d’arte che con Bruna Roccasalva (appunto la mia compagna di vita) e Anna Daneri abbiamo fondato a Milano nel 2009. È nato per disperazione, in una domenica pomeriggio, in cui io e Bruna abbiamo deciso che era arrivato il momento di darsi una mossa. Poi abbiamo chiamato Anna e le abbiamo raccontato quello che volevamo fare. E da li è partito tutto.

Peep-Hole è stato il nostro figlio, prima che nostro figlio arrivasse per davvero, è stata la nostra vita, ci abbiamo messo tutto quello che avevamo e, scusate se mi permetto, questo amore, ha pagato. Peep-Hole ha rappresentato la dimostrazione vivente che anche in Italia si può creare qualcosa dal nulla, senza l’aiuto del pubblico, senza assistenza o assistenzialismo.

Ma dopo sette anni di Peep-Hole di cui gli ultimi quattro conditi dal rilancio di Miart, per il quale ho dovuto reinventarmi e trasformarmi in qualcosa che non sapevo neanche io di essere, avevo voglia di lanciarmi in qualcosa di nuovo. Volevo che quelle istituzioni che già mi avevano «rimbalzato» sette anni prima, mi dessero una possibilità e infatti ho fatto i concorsi del Mart di Rovereto e del Castello di Rivoli, nella speranza che avessero voglia di investire su una figura come la mia. In quel momento non avrei voluto lasciare l’Italia prima di aver tentato tutto il tentabile.

Ma alla fine, mentre qui in Italia non mi prendevano in considerazione (sia chiaro, questi musei hanno scelto benissimo dei candidati di grande spessore ed esperienza che meritavano quei posti) ho avuto un’occasione irrinunciabile. Si è fatto avanti non un museo qualsiasi, ma quel museo che io, quasi come un groupie, avevo idolatrato nei miei anni americani e in quelli successivi. Il Walker Art Center, infatti, è un mito per tutti coloro che vogliono fare il mio lavoro.

Un posto che è stato la palestra di tanti, tantissimi grandi curatori e in cui sono state realizzate alcune mostre che resteranno per sempre nella storia. Un esempio? Quante mostre di recente sono state fatte su Bruce Nauman, anche in Italia? Il Walker gli ha dedicato la prima retrospettiva al mondo nel 1994. Oppure ancora quella che passa a tutti come la grande mostra dell’Arte povera della Tate, altri non è che una mostra del Walker, organizzata da Richard Flood, che è partita dalla Tate solo per ragioni logistiche. Mi fermo qui perché la lista sarebbe troppo lunga.

Quello che ci ha fatto decidere di lasciare tutto e ripartire (perché passare da una direzione a una curatela vuol dire ripartire da gradini più in basso e sottostare al volere di altri, quando per anni hai potuto stabilire tu le politiche culturali dei luoghi che hai diretto) è stata la consapevolezza che un museo del genere, il quinto museo d’arte d’America e tra i primi dieci del mondo, mi seguiva da tempo e conosceva il mio lavoro. Sia la direttrice sia il capo curatore seguivano il mio lavoro a Miart, conoscevano tutte le mostre di Peep-Hole ed erano passati da Milano per vedere «Ennesima», la mostra sull’arte italiana che avevo curato per la Triennale di Milano tra il 2015 e il 2016.

A questo si aggiungeva un, piccolo ma non troppo, desiderio di un’esperienza lavorativa negi Stati Uniti che era qualcosa rimasto lì, sospeso, idealizzato, come quegli amori adolescenziali che ti porti dietro tutta la vita proprio perché mai realmente realizzati. E allora abbiamo deciso, perché è stata una scelta di famiglia a cui non potevamo rinunciare. Sui dettagli della vita lavorativa mi dedicherò nelle prossime puntate. Ora mi concentrerei sugli aspetti più di colore e sociali della vita negli Stati Uniti in generale e a Minneapolis in particolare.

Quando siamo arrivati nell’estate del 2016 l’America era in piena campagna elettorale presidenziale, e nessuno, dico nessuno, delle persone con cui sono entrato in contatto, pensava neanche lontanamente che sarebbe successo quello che poi è successo: l’elezione di Donald J. Trump a presidente degli Stati Uniti.

Per gli italiani che hanno vissuto vent’anni di berlusconismo, il trumpismo era una realtà che poteva avverarsi. Invece per gli Usa no, o meglio per quegli strati degli Usa che pensano che la loro Nazione sia superiore a qualsiasi altra democrazia mondiale. Viceversa, puntualmente, il populismo, come da altre parti del mondo, ha prevalso anche qui. Pensate che lo shock dell’elezione ha portato la direttrice del museo a chiudere il museo il giorno dopo la vittoria elettorale. Fosse stato così per noi, in Italia, con tutti i cambi di Governo che abbiamo avuto, non avremmo mai dovuto lavorare.

Ma la realtà è che l’elezione di Trump altro non è stata che il risveglio di quello che sopiva sotto uno strato di conformismo e perbenismo molto spesso in alcuni strati della società americana. Trump è stata sì una tragedia ma, e lo dico senza remore, probabilmente sarà la ragione per cui questo Paese potrà iniziare un processo di cambiamento reale, che, come dicevo prima, io non vedrò completare, ma che potrà solo migliorarlo, perché diciamolo, anche qui senza remore, peggio di com’è stato in questi ultimi anni questo Paese non potrà essere.

L’inizio del trumpismo per me è segnato da un aneddoto personale che se a molti potrà sembrare stupido e superficiale, in realtà rappresenta una metafora perfetta della situazione in cui abbiamo iniziato a vivere dal novembre 2016 (elezioni) e, ancora di più dal gennaio 2017 (giuramento e insediamento).

Siamo all’inizio di gennaio 2017 e siamo agli arrivi dell’aeroporto di Minneapolis di ritorno da un viaggio in Italia per le vacanze di Natale. Ci apprestiamo a passare dal controllo passaporti e il poliziotto di frontiera, fino ad allora sempre gentile e pacato, mi chiede con fare stavolta minaccioso e arrogante quale fosse il motivo del nostro arrivo dall’Italia.

Vi prego di considerare che in qualità di lavoratore dipendente io possiedo un visto in cui è citato anche il mio datore di lavoro. Alla mia risposta che ero lì per lavorare al Walker, lui mi risponde beffardamente: un italiano che lavora al Walker, allora non puoi che essere il parcheggiatore o il cuoco!

Quella che per noi può essere una battuta scherzosa, negli Stati Uniti, dove il senso dell’umorismo è pari alla quantità di anidride carbonica restante in una bottiglia di acqua gasata aperta una settimana prima e mai richiusa, è la testimonianza del grado di razzismo endemico di cui questo Paese è pervaso, se si eccettuano New York e Los Angeles, che pur essendo in questa Nazione e pur essendone i due centri di gravità permanente, non rispecchiano per nulla il resto dell’America, piene come sono di gente proveniente da tutto il mondo.

Quella battuta era il sintomo del fatto che l’elezione di un presidente razzista, omofobo, guerrafondaio (quello ahimè sappiamo lo sono un po’ tutti i presidenti, evidentemente), avesse sdoganato l’essere più intimo e profondo degli americani.

È stato quello uno dei momenti, altri ce ne saranno in seguito, in cui ho capito davvero che questo non era più il Paese che avevo conosciuto. Però lo voglio dire chiaro e forte, la scelta di trasferirmi e andare a lavorare in un contesto semplicemente meraviglioso come quello del Walker Art Center è e sarà sempre una scelta che riterrò la più giusta ed eccitante della mia vita lavorativa e personale. Una scelta che mi/ci sta dando delle soddisfazioni incredibili e la possibilità di lavorare a un livello professionale veramente alto. Però quel momento mi ha fatto capire che eravamo finiti in un posto in cui i parametri a cui eravamo stati abituati e di cui eravamo convinti, non erano gli stessi.

Prima di trasferirci avevamo fatto tante ricerche. Come ho già scritto in altre occasioni, abbiamo imparato che Minneapolis è molto liberale e che ha avuto un sindaco democratico dal 1974 ad oggi con la sola eccezione di un brevissimo periodo di un sindaco indipendente; che nel Minnesota è stato votato un candidato presidenziale democratico sin dal 1976; che nelle elezioni primarie democratiche del 2016, qui addirittura il socialdemocratico Bernie Sanders ha sconfitto sonoramente la molto più moderata e potente Hillary Clinton che poi ha perso contro Trump e la cui candidatura forse è la vera colpa di questo Paese.

Avevamo anche scoperto che Minneapolis è secondo «Forbes» la città più colta d’America, e una di quelle più green, con un sistema di parchi premiato per anni di fila come il migliore della Nazione. Abbiamo provato sulla nostra pelle che il Minnesota è un esempio di Welfare con un sistema scolastico pubblico ottimo (e infatti nostro figlio frequenta una scuola pubblica) e con sistemi sanitari d’eccellenza a livello nazionale.

Infine abbiamo scoperto altre due cose che renderebbero il Minnesota e Minneapolis all’avanguardia nell’integrazione, ovvero la parità di genere in fatto di stipendi, tanto che quelli delle donne sono identici a quegli degli uomini e sono decisamente più alti rispetto al resto degli States (una media di 800 dollari alla settimana contro i 620 nel resto degli Usa) e infine che la città ha un ranking altissimo a livello nazionale come Lgbtq+ «friendly city».

Tutto questo, condito da quel museo culto che è il Walker, era quello che sapevamo e per il quale abbiamo deciso che ci saremmo trasferiti, senza guardarci indietro, dove poter lavorare a un altissimo livello professionale e dove poter crescere nostro figlio in un contesto di grande integrazione e progresso sociale. E nonostante Trump, e nonostante i parametri sballati, è stato cosi. E anche di più.

Io e la mia famiglia qui abbiamo vissuto bene, anzi benissimo, e al sicuro, protetti da quell’ambiente liberal di cui parlavo prima. Solo che quattro anni di quella presidenza hanno fatto emergere una storia a dir poco imbarazzante, e allora ti accorgi tutto d’un tratto che nel circolo di persone che frequenti, ce ne sono solo due o tre di colore, o straniere; ti accorgi di essere l’unico straniero che lavora in un museo di uno staff di oltre 130 persone.

Leggi e ti informi sul fatto che tutta la polizia della città vive fuori dalla stessa, in «Trumpland», e ha la fama di essere tra le più violente d’America. E metti insieme i dati: il 90% delle persone fermate ogni anno dalla polizia sono di colore e di queste, in un anno solare, nella sola città di Minneapolis, cinque sono state trovate morte dopo essere state prese in custodia dagli agenti.

E poi arriva un’altra data: il 25 maggio 2020 tutto il mondo attraverso il telefonino si accorge che esiste questo pezzo di terra nel Midwest americano dove un uomo viene ucciso da agenti della polizia per un possibile reato da 20 dollari. E così tutti nel mondo si accorgono di quei parametri totalmente sballati che tu vedi da cinque anni: perché già ammanettare qualcuno per un evento del genere per noi sarebbe incomprensibile, e invece qui non solo gli vengono messe le manette ma poi, sia pur senza nessun tipo di resistenza, per quattro poliziotti la prassi è bloccare con enorme vigore e con i loro corpi un uomo steso supino per terra, e uno di loro addirittura comprime con il suo ginocchio il collo di quest’uomo per 8 minuti e 40 secondi senza che né lui né gli altri tre agenti ascoltino le richieste di aiuto dello stesso uomo e quelle dei passanti.

Il 25 maggio 2020 probabilmente ci sarebbe stato anche senza Trump, ma la coincidenza con la sua presidenza ha creato una situazione insostenibile. Da quel momento è cambiato veramente tutto e in questo caso, anche la vita professionale e il museo per come l’avevo conosciuto e amato fino a quel momento. Per sapere più nel dettaglio come e che cosa è cambiato e come questo abbia un’incidenza nel sistema dell’arte americano (e perciò stesso anche globale), vi devo chiedere un po’ di pazienza e rinviarvi alla prossima puntata. D’altra parte l’attesa della puntata successiva è parte stessa della scrittura, del successo o meno della serie stessa.

L'autore è Curator and Associate Director of Programs, Visual Arts del Walker Art Center di Minneapolis

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Il Walker Art Center di Minneapolis

Vincenzo de Bellis, 28 ottobre 2021 | © Riproduzione riservata

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