La mia mostra immaginaria s’intitola «Lo studio. Un dipinto perduto di Felice Casorati». «Lo studio» era un quadro di grande formato, dipinto nel 1922. Non esiste più. È bruciato nel giugno 1931 nell’incendio del Glaspalast, il Palazzo di Cristallo di Monaco di Baviera, quando era in corso l’annuale Kunstasstellung. È una mostra di una sola stanza. Sulla parete di fondo c’è un grande disegno a muro. Ho fatto disegnare il dipinto di Casorati, a grandezza naturale. L’ho fatto ricalcare da una riproduzione e ingrandire. Come il quadro originale, il disegno misura 198 centimetri di base e 200 di altezza. Un quadrato.
Accostata alla parete di sinistra, una vetrina, dentro la quale ho disposto libri, disegni, fotografie e qualche documento: c’è la monografia di Piero Gobetti, Felice Casorati Pittore, edita nel 1923, aperta sulla pagina con l’illustrazione dello «Studio»; ci sono alcuni articoli, tra i quali quello del «Corriere della Sera» del 7 giugno 1931: si intitola «Un irreparabile lutto per l’arte. Il Palazzo di Cristallo di Monaco arso. La mostra di oltre 3.000 quadri incenerita». Ci sono anche alcuni disegni, poco più grandi di un francobollo; minuscoli frammenti sui quali Casorati aveva abbozzato, come sua consuetudine, lo schema del suo dipinto. Li ho chiesti in prestito alla Gam, la Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea di Torino. Davanti al grande disegno a parete, in mezzo alla stanza, c’è una panca. Potete sedervi e ascoltare l’audio in cuffia, potete guardare il disegno, provare a immaginarlo a colori, ambientarlo in uno spazio reale e in un preciso momento storico. Di fronte a quel fantasma di quadro, la mia mostra è un racconto.
«Lo studio» rappresenta l’atelier di Felice Casorati, interno alla sua abitazione torinese dove viveva con la madre e le due sorelle, nel quartiere del Borgo Nuovo, poco distante dal fiume Po. A Torino Casorati è arrivato nel 1918, da Verona, dopo la Grande guerra e dopo il suicidio del padre. È nato a Novara il 4 dicembre 1883. Ha vissuto con la famiglia, al seguito del padre ufficiale di carriera, a Sassari, a Padova (dove si è laureato in Legge e ha iniziato a dipingere), poi a Napoli e a Verona. Ha esordito alla Biennale di Venezia nel 1907.
«Lo studio» del 1922 raffigura un interno silenzioso ma abitato, quasi affollato. Ci sono due giovani donne, un ragazzo, un busto di Venere in gesso e in più le figure femminili disegnate a tratti marcati su fogli di carta, sparsi a terra. Ci sono le figure, la modella e gli strumenti del mestiere: la copia in gesso, i cavalletti, le tele ancora bianche e vuote appoggiate alle pareti. Pennelli, matite, fogli, camici da lavoro, una lunga bacchetta. Una misura. Nella quotidianità, l’atelier è uno spazio operoso. Qui il pittore lavora e qui insegna. Insegna da quando è arrivato a Torino. Nei primi anni ha due allievi, poi ne verranno molti altri. Molte altre. Qui pensa alla pittura e ne traduce il pensiero, dipingendola.
Il quadro perduto parla della pittura che riflette su se stessa, sull’insegnamento, il discepolato, sulle fonti, l’ispirazione, sulla sua vita materiale, sulla sostanza concettuale. Una pittura alla seconda, alla terza. Al centro dello studio sta una modella, seduta di spalle su uno sgabello basso. È nuda, ha i capelli raccolti e la testa leggermente inclinata in avanti. Siede di fronte al busto di una Venere mutila: il suo corpo è speculare a quel torso bianco, minerale, privo di testa e di braccia, una copia accademica, alta su una base di legno. Accanto, a sinistra, un’allieva, anch’essa seduta, tiene con grazia una matita tra le dita della mano. La mano è levata. A mezz’aria. La giovane, intenta nel disegno che tiene appoggiato sulle ginocchia, si è fermata e sta osservando la modella con sguardo attento. Dall’altro lato, un ragazzino dipinge davanti a una tela. Indossa un lungo camice dalle pieghe abbondanti, lungo fino ai piedi.
Tutto converge verso la modella nuda, dietro la quale sta, invisibile, il pittore. È lui il vertice sottinteso degli sguardi assorti. È lui a porsi alla stessa altezza della Venere di gesso e a dialogare con l’antico. «Lo studio fra i miei quadri è quello che più ho amato», dirà. «Credevo che in esso vi fossero evidenti (...) non solo lo schema mentale, ma soprattutto la mia visione spirituale, sebbene espressa con una castigatezza così compiaciuta che sapeva di mortificazione. Io avevo allora il cuore gonfio di orgoglio per l’opera mia. Finalmente avevo creato il quadro… Ma “Lo studio” fu distrutto dall’incendio del Palazzo di Cristallo di Monaco».
«Monaco, 6 giugno 1931, notte. Stamane all’alba, in meno di un’ora, il maestoso Palazzo di Cristallo di Monaco (...) è stato divorato dalle fiamme: di esso non resta che un cumulo di travature contorte, di vetri anneriti e infranti, attorno a cui migliaia di cittadini costernati si affollano. Poiché il palazzo ospitava l’Esposizione annuale d’arte moderna, che comprendeva oltre tremila quadri, cui si era aggiunta una mostra speciale di centodieci opere di pittori germanici della Scuola romantica, poiché ben pochi quadri si sono salvati, il lutto è irreparabile per il mondo artistico» (...). La sezione della mostra annuale del Palazzo di Cristallo, alla quale Felice Casorati è invitato nell’estate 1931, s’intitola «Secessione».
L’artista ha inviato nove opere (...) Figure, ritratti, paesaggi, nature morte. «Lo studio» fa pendant con «La lezione» del 1929. Ci sono due ritratti della sorella, uno dei quali, del 1922, in prestito dalla Galleria d’Arte Moderna di Torino: Casorati ha scritto personalmente al direttore, Vittorio Viale che ha concesso il prestito, nonostante il Museo, in accordo con il podestà, abbia da poco limitato, per ragioni conservative, gli spostamenti delle opere. C’è la «Fanciulla addormentata» del 1921, in prestito dal Comune di Milano, una grande tempera ispirata al Cristo morto del Mantegna della Pinacoteca di Brera. Ci sono uno studio di nudo e una natura morta con rape.
Nessuna delle opere si salva, nessuna di quelle di Casorati ma anche di de Chirico (che perde una «Modella con rovine», di proprietà della Galleria Flechtheim di Berlino), nessuno dei dipinti di De Pisis, Sironi, Picasso, Derain, Kokoschka. Sono invece salvi i due dipinti di Carrà, un nudo e «Alba sul mare». Vanno in fumo oltre un centinaio di dipinti di pittori romantici tedeschi, datati dalla fine del Settecento agli ultimi decenni dell’Ottocento, provenienti dalle collezioni statali e private di Berlino, Norimberga, Dresda, Amburgo e, tra questi, «L’inverno» di Caspar David Friedrich.
«Il custode del palazzo, che fu il primo a dare l’allarme racconta che nella ronda delle 3 e 20 sentì un crepitio di fiamme e vide le prime lingue di fuoco elevarsi al di sopra del tetto. Corse immediatamente al telefono per chiamare i pompieri, ma già i fili erano bruciati e la linea interrotta. Intanto anche qualche passante aveva scorto il fuoco e si era gettato nell’interno del padiglione, portando fuori ciò che si trovava a portata di mano. Poterono così venir salvati circa cento quadri, tra cui sei italiani. (…). Il professor Zimmermann, direttore generale del Palazzo di Cristallo (...) è del parere che l’incendio sia doloso». Tra le possibili cause, si parlerà anche della vendetta di un artista, escluso dalla giuria dell’Esposizione.
(...) Il «Ritratto della sorella» condivide dunque lo stesso destino dello «Studio». Insieme ai «Ritratti di Riccardo e di Cesarina Gualino», le due opere erano state presentate per la prima volta nel 1923 in una sala della Quadriennale di Torino, una sala che il pubblico e la critica avevano ribattezzato la sala scandalosa, perché Casorati (...) vi aveva invitato a esporre de Chirico e Carrà, i giovani Chessa, Menzio e Levi. Carlo Levi è uno studente di medicina. Il perché abbia scelto di fare il pittore (...) lo racconterà molti anni dopo. Nel racconto, pubblicato su «La Stampa» il 24 marzo 1963, a pochi giorni dalla morte di Casorati, la decisione è legata allo «Studio». Lo studio che è insieme un luogo e un quadro.
«Fu allora, in quella mia prima giovinezza che conobbi Felice Casorati. È difficile oggi capire cosa significasse, nella Torino di allora, del tutto aliena dalla conoscenza di che cosa potesse essere l’arte moderna, l’arrivo di Felice Casorati. Era l’arrivo di un grande maestro, di un essere di un altro mondo, di natura diversa da quella nota, di qualcuno che parlava un’altra lingua, i cui suoni ci meravigliavano (...). Per molti anni poi, quando cominciai a esporre i miei quadri, fui detto dai critici suo allievo. Non lo fui mai veramente. Ma tuttavia mi è grato dire che, in un certo senso e nel modo più vero, lo fui. Lo fui per un istante, un istante di tempo di pochi minuti (...). Non so come, ero finalmente andato un giorno da lui, nella sua casa, avevo passato per la prima volta il cortile e la doppia porta, come feci poi per quarant’anni. Ero stato introdotto dalla sorella nel salotto e lasciato in attesa.
Il maestro stava suonando e non poteva essere interrotto. Veniva da una stanza lontana il suono del pianoforte, una meravigliosa composizione improvvisata, che si prolungava e pareva girasse su se stessa, senza fine. Sapevo che Casorati teneva chiuse le porte del suo studio. Odiava che occhi estranei sfiorassero le opere (...). Ma la porta, che dal salotto dove io ero in attesa portava allo studio, era, quel giorno, semiaperta. Mi affacciai (...) allo spiraglio di quella soglia vietata. Sul cavalletto stava, iniziato, il grande quadro “Lo studio” (...) Ai muri erano altri quadri famosi: “L’uomo delle botti”, “Le uova”, “Il tiro a segno”. Ebbi appena un momento per guardarli, come un ladro, e mi parvero meravigliosi. È difficile dire che cosa sentissi, e come intenso, in quel momento rubato. Ma certo fu attraverso quei quadri che improvvisa mi venne la rivelazione della pittura, come incanto libero di spazi, come manifestazione di quel tempo, interno alle cose e al profondo del cuore, che non è nell’oggetto immobile e morto, ma nella sua forma reale, nel suo numero. Il numero, che è chiuso, implicito come l’esistenza nella realtà, nel tempio greco: il classico, pieno della dolente malinconia di essere nel nostro tempo».
Carlo è amico di Nella Marchesini, la prima a studiare da Casorati. Nella e Carlo appartengono alla cerchia di Piero Gobetti, della sua rivista «Energie nove». Piero crede che la cultura sia azione, che sia un elemento della vita politica (...) Il giovane intellettuale, nato nel 1901, è legato a Casorati, nonostante la differenza di età. Gobetti ama la politica, il teatro, la filosofia, la pittura. Nel 1922 inizia a lavorare a un libro su Casorati pittore. Il 5 agosto scrive alla fidanzata, Ada Prospero: «In questi giorni lavoro molto ma scrivo pochissimo: occupo quasi tutto il mio tempo nell’esame dei quadri. Casorati dice che diventerò il più grande critico d’arte». E il giorno dopo, ancora, cita il «Ritratto della sorella», «Fanciulla addormentata» e un dipinto intitolato «Gli allievi».
Il primo e provvisorio titolo dello «Studio» fa supporre che gli allievi siano persone reali: nel grande dipinto, Nella Marchesini a sinistra, Silvio Avondo a destra. «Lo studio», insieme ai «Ritratti», sono per Gobetti «il canto armonico e completo di una generazione». Lo scrive sulle pagine della monografia del 1923. Scrive anche dei colori del dipinto, del telaio grigio dietro la Venere di gesso, dei bianchi delle carni, della «giustezza sparsa dei grigi e dei bianchi» che «danno allo svolgimento della trama una singolare unità, percorsa, in un ritmo piacevolmente vario, dai timidi rossi e dai verdi dignitosi».
Casorati espone «Lo studio» nella sua sala personale alla Biennale del 1924, introdotta da Lionello Venturi. Venturi che davanti a quell’opera ne aveva fissato la prima impressione: «Era ben un quadro d’avanguardia, eppure sentivo le sue affinità coi quadri antichi; mi parlava della nostra vita attuale, ma in un modo che conoscevo perché frequentavo i musei». (...) Nino Barbantini, sulla «Gazzetta di Venezia», commenta i suoi colori: colore stupefacente, «smagliante e nitido che le cose sembrano formate di pasta di vetro».
A Venezia l’opera viene acquistata da Giorgio Georgiadis, avvocato, membro della comunità greco-orientale di Trieste, consigliere del Museo Revoltella. Lo «Studio» lascia lo studio. Nell’atelier torinese restano le cose, i cavalletti, gli sgabelli, gli allievi e la luce che «s’allarga a strati come una fosforescenza delle cose stesse». Lo nota Francesco Bernardelli, in visita nell’atelier per un articolo che esce su «La Stampa» il 13 marzo 1926. «Al centro sta mozza una statua, un torso di donna, la cosiddetta “Venere Tripolina” che raccoglie in sé da ogni lato e riflette pacata tutta quella luce e tutta quella ansietà. Non c’è dubbio, questo è ben lo studio, il famoso “Studio” di Casorati».
Nel novembre 1930 la Collezione Georgiadis va all’asta, a Milano, alla Galleria Lurati. «Lo studio» passa di mano. Sul catalogo di Monaco è accompagnato dalla dicitura «Collezione Bettino Errera, Firenze»; anche lui è un avvocato, personaggio di spicco della comunità ebraica cittadina. Tre anni dopo l’incendio, Felice Casorati ridipinge il quadro (...). Si concede nuovamente il tempo (...) per ritrovare i suoi colori a memoria. Oltremare, lapislazzuli, cinabro, cinabro vermiglio. Lo studio del 1934 è conservato e visibile a Palazzo Merulana, a Roma, parte della Collezione e Fondazione Elena e Claudio Cerasi.
Questo testo è stato al centro della puntata del 7 aprile 2020 del programma di Rai Radio 3 «Le mostre impossibili».