«Self-Portrait», 2005. San Francisco Museum of Modern Art, Phyllis C. Wattis Fund for Major Accessions. Foto: Katherine Du Tiel

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«Self-Portrait», 2005. San Francisco Museum of Modern Art, Phyllis C. Wattis Fund for Major Accessions. Foto: Katherine Du Tiel

Nam June Paik aveva capito tutto

Alla Tate Modern una grande retrospettiva del pioniere della videoarte

«La pelle è oramai inadeguata a interfacciarsi con la realtà. La tecnologia è diventata la nuova membrana del nostro corpo». Così scrisse Nam June Paik (1932-2006), artista coreano pioniere della videoarte e autore di imponenti installazioni gremite di televisori e dispositivi elettronici in perenne «mode-on».

Una pratica, la sua, che è stata in grado di predire l’importanza dei mass media e delle nuove tecnologie (quelle electronic superhighway a cui si ispirerà in un noto lavoro del 1995), nonché il futuro dell’informazione nell’età di internet. A Paik, la cui opera risulta decisiva in un’epoca plasmata dalla comunicazione digitale e dall’overload di immagini, la Tate Modern dedica dal 17 ottobre al 9 febbraio la più ampia retrospettiva mai tenuta in Gran Bretagna, e organizzata in collaborazione con il San Francisco Museum of Modern Art.

«L’ultima monografica di Paik a Londra risale alla mostra presso la Hayward Gallery nel 1988, dichiara l’assistente curatore Valentina Ravaglia. Considerata la grande influenza di Paik su generazioni di artisti che lavorano col video e le tecnologie dei mass media, così come la capacità della sua arte di parlare a un giovane pubblico di nativi digitali, l’assenza dell’artista dal calendario espositivo degli ultimi decenni rappresentava una lacuna cui è stato necessario porre rimedio al più presto».

Raggruppando oltre 200 lavori, dalle prime performance e composizioni musicali ai lavori video e alle installazioni di televisori, l’esposizione traccia l’intera parabola della carriera dell’artista e la geografia dei suoi spostamenti, dalla Corea al Giappone, dalla Germania (dove si unì al gruppo Fluxus) agli Stati Uniti (dove collaborò con esponenti di spicco della scena newyorkese d’avanguardia, fra cui il musicista John Cage, il coreografo Merce Cunningham e la violoncellista Charlotte Moorman).

Tra i lavori di spicco, «TV Garden» (1974-2002), in cui decine di televisori «crescono» dal suolo di un rigoglioso giardino, e «Sistine Chapel» (1993), cacofonica videoinstallazione a canali multipli ricreata per la prima volta dopo oltre 25 anni, quando Paik la realizzò per il Padiglione della Germania alla Biennale di Venezia del ’93. «Paik comprese davvero il potenziale così come i pericoli dei mass media, e a interessarlo era il modo in cui la tecnologia potesse influenzare la società nel corso della storia, conclude la Ravaglia. Non solo predisse internet quando scrisse di electronic superhighway nel ’74: immaginò anche le sue ramificazioni creative, economiche e sociologiche».

«Self-Portrait», 2005. San Francisco Museum of Modern Art, Phyllis C. Wattis Fund for Major Accessions. Foto: Katherine Du Tiel

Federico Florian, 15 ottobre 2019 | © Riproduzione riservata

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