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«Three Studies For Figures at the Base of a Crucifixion» (2001), di Paul Pfeiffer. © Paul Pfeiffer. Cortesia Paula Cooper Gallery, New York

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«Three Studies For Figures at the Base of a Crucifixion» (2001), di Paul Pfeiffer. © Paul Pfeiffer. Cortesia Paula Cooper Gallery, New York

Paul Pfeiffer affascinato da Hollywood

La sua prima retrospettiva istituzionale negli Stati Uniti, al MoCA di Los Angeles, è una profonda riflessione del rapporto tra verità, spettacolo e rappresentazione

Federico Florian

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Se Guy Debord definiva lo spettacolo «il brutto sogno della società moderna incatenata», per Paul Pfeiffer (Honolulu, 1966) esso rappresenta un’inesauribile fonte di ispirazione. Lo spettacolo, per lui, si fabbrica negli stadi e sulle scene hollywoodiane, tra i pixel degli schermi televisivi, nella trama e nell’ordito dei mass media. La sua arte ne disseziona i meccanismi, mettendo a nudo le fragilità e le ossessioni che alimentano il culto contemporaneo della celebrità. Dal 12 novembre al 16 giugno 2024, il MoCA dedica a Pfeiffer la sua prima retrospettiva istituzionale negli Stati Uniti, con oltre trenta lavori prodotti nell’arco della sua carriera.

Il titolo della mostra, «Prologue to the Story of the Birth of Freedom», allude a un momento cruciale nella storia dell’entertainment americano: il discorso introduttivo di Cecil B. DeMille al suo colossal «I dieci comandamenti», la più costosa produzione cinematografica mai realizzata al momento della sua uscita, nel 1956. Un riferimento, questo del titolo, che conferma la fascinazione da parte dell’artista nei confronti della più grande macchina di produzione di spettacolo: Hollywood. «Los Angeles offre l’ambientazione ideale per questa mostra, dichiara Johanna Burton, Maurice Marciano Director del MoCA. È la capitale mondiale dell’intrattenimento e una città sempre pronta a creare e manipolare sogni, simboli e mitologie».
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Tra i lavori più iconici, i primi video su schermi a cristalli liquidi, in cui l’artista riedita i filmati di celebri partite di basket o pugilato (come i match di Muhammad Alì) cancellando digitalmente oggetti, suoni e persone, e ricorrendo a tecniche quali il loop e lo slow-motion: invito a una riflessione attualissima, quella del rapporto tra verità, spettacolo e rappresentazione. In una fotografia della serie «Four Horsemen of the Apocalypse», del 2015, un giocatore di pallacanestro occupa il centro dell’immagine, levitando come un martire estatico sopra una croce invisibile. Qui l’intervento di Pfeiffer si limita a rimuovere gli avversari, i cartelloni pubblicitari e i tabelloni segnapunti: il giocatore si trasforma così in un’icona sacra, dinanzi a una folla di tifosi-credenti in adorazione.
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Tra le altre opere, nuovi lavori della serie «Incarnator» (2018-23), prodotti appositamente per il MoCA. Si tratta di sculture in legno realizzate nelle Filippine (dive Pfeiffer ha trascorso l’adolescenza) e intagliate da encarnadores locali (scultori di santi e icone cattoliche). Ma al posto dei consueti soggetti religiosi, l’artista americano immortala nel legno i volti di popstar contemporanee. Un esempio: Justin Bieber, raffigurato come Cristo risorto. Sono visibili anche alcune fra le grandi installazioni immersive di Pfeiffer. In primis «Vitruvian Figure» (2008), un modello architettonico di otto metri di diametro di un enorme stadio circolare, ispirato al Sydney Olympic Stadium. Distopico tributo all’architetto romano Vitruvio, la scultura dà forma a un’inquietante visione di spettacolo, in pieno stile debordiano.

Federico Florian, 10 novembre 2023 | © Riproduzione riservata

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