Federico Florian
Leggi i suoi articoliNel 1976, nel suo appartamento prefabbricato a Stepney Green, East London, Bobby Baker (1950) realizzò un’installazione commestibile della durata di una settimana. «An Edible Family in a Mobile Home» si componeva di una famiglia di cinque individui, madre, padre e i tre figli, le cui silhouette erano fatte di torte, dolci e biscotti. La bambina di zucchero giaceva nel lettino, il figlio nella vasca da bagno, la figlia adolescente ascoltava la radio nella camera dei genitori, mentre il padre riposava su una poltrona. Luogo prediletto della madre, l’unico elemento mobile di questa famiglia commestibile, era la cucina: qui i visitatori potevano sorseggiare una tazza di tè da una teiera posta sulla sua testa, oppure concedersi uno snack da un compartimento all’interno del suo addome. Baker ricopriva il ruolo di hostess: offriva cibo e incoraggiava i visitatori a divorare la dolce famiglia silente, come in una fiaba dei fratelli Grimm. Indossava una divisa neutra, che ricordava quella di una donna di servizio: la risposta femminile, nelle parole dell’artista, alla «tenuta da macho di Joseph Beuys, che consisteva in cappello e gilè smanicato».
Baker è una delle oltre 100 artiste incluse in una densa collettiva che la Tate Britain dedica, dall’8 novembre al 7 aprile 2024, all’arte femminista britannica prodotta tra il 1970 e il 1990. «Women in Revolt!», titolo della mostra, presenta cronologicamente l’opera di una generazione di artiste (alcune molto note, quali Sonia Boyce, Susan Hiller e Linder; altre meno, come Poulomi Desai e Shirley Cameron) che attraverso pittura, scultura, fotografia, film e performance hanno interrogato il ruolo della donna in società, denunciando la tirannia di un mondo maschilista e patriarcale, e l’opprimente legame tra sfera domestica e genere femminile.
Se Baker, con genio e ironia, si prendeva gioco del cliché della donna come regina della quiete domestica, tanto da invitare gli ospiti a mangiare i calchi della sua stessa famiglia, Helen Chadwick (1953-96), un’altra delle artiste in mostra, parodiava la schiavitù della donna dalla casa e, in particolare, dalla dimensione della cucina. «In the Kitchen» (1977) è una serie di 12 fotografie in cui l’artista, senza veli, indossa costumi di elettrodomestici, dando forma a immagini la cui estetica rievoca quella di scatti pubblicitari. «La cucina, spiegava Chadwick, va vista necessariamente come l’àmbito archetipo femminile in cui il feticismo degli elettrodomestici la fa da padrone. Manipolando questo ambiente domestico e familiare, ho cercato di esprimere il conflitto (...) tra valori propri e valori imposti dalla società».
L’esposizione esplora anche il tema della protesta e della manifestazione pubblica, attraverso foto d’archivio, striscioni e materiale testuale. Tra i pezzi clou, un’imponente scultura di Margaret Harrison (n. 1940) che rivisita il Greenham Commons Women’s Peace Camp, durante il quale, a partire dal 1981, migliaia di donne si radunarono attorno alla base militare di Greenham Common per protestare pacificamente contro l’impiego di armi nucleari. L’opera di Harrison si compone di una recinzione (che rievoca quella che circondava la base) a cui sono appesi specchi, stivaletti per bambini, foto e borse di plastica: un poetico monumento all’attivismo femminile. Ulteriore oggetto di disamina è il rapporto tra arte e attivismo femminista nell’ambito della comunità black. Fra le figure chiave, Lubaina Himid, Claudette Johnson e Rita Keegan, oltre a Nina Edge, la cui installazione del 1985, «Snakes and Ladders», viene qui esposta per la prima volta dopo tre decenni.
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