Nel Seicento, dopo che il Mediterraneo è stato liberato dalla minaccia turca, la Repubblica genovese conosce un lungo periodo di prosperità economica, che cambia in modo prepotente il clima culturale della città, richiamando artisti dai grandi centri italiani, ma anche dall’Europa. In sintonia con il carattere sobrio, quasi austero, di Genova, gli architetti disegnano un nuovo volto della città «non monumentale ma di alto decoro» (Giulio Carlo Argan), edificando palazzi dichiarati nel 2006 Patrimonio Unesco. La Superba diventa così il punto di confluenza di due tradizioni europee, quella italiana e quella fiamminga, grazie alla presenza di Rubens e di Antoon van Dyck, ritrattista ufficiale della nobiltà genovese. La pittura conosce protagonisti come Bernardo Strozzi, il Grechetto, Gioacchino Assereto e Gregorio De Ferrari.
L’età barocca di Genova è oggetto di alcune mostre, a cominciare dall’evento clou, «Superbarocco. Arte a Genova da Rubens a Magnasco», dal 26 marzo al 3 luglio alle Scuderie del Quirinale, che l’ha organizzato con la National Gallery of Art di Washington (qui avrebbe dovuto inaugurare il 26 settembre 2021, ma è stata rimandata «ufficialmente» a causa della pandemia).
A Genova, a Palazzo Ducale dal 27 marzo al 10 luglio si visita invece «Superbarocco: la forma della meraviglia. Capolavori a Genova tra 1600 e 1750», che include anche spazi monumentali della città. Entrambe le esposizioni sono curate da Piero Boccardo, storico direttore dei Musei di Strada Nuova e tra i massimi conoscitori internazionali del Barocco, da Jonathan Bober, senior curator del Dipartimento di disegni antichi della National Gallery di Washington e da Franco Boggero, per 40 anni funzionario della Soprintendenza ligure.
A queste due mostre si aggiungono, sempre a Palazzo Ducale dal 6 ottobre «Rubens e i Palazzi di Genova», un focus sul celebre volume realizzato da Rubens (1622) in seguito ai diversi soggiorni nel centro ligure.
La mostra romana è il frutto di un progetto perseguito per molti anni da Bober e da Boccardo, ma vari giornali, tra cui «la Repubblica», all’inizio di gennaio hanno riferito del suo pensionamento anticipato a causa di contrasti con il sistema museale genovese, su cui potrebbe avere pesato anche la mancata tappa americana della mostra che ora si apre alle Scuderie. Saranno esposte oltre centoventi opere, non soltanto dipinti (spesso di grande formato) e sculture, ma anche raffinati argenti, arredi, tessuti e oggetti.
Notevoli i prestiti provenienti dagli Stati Uniti: la National Gallery di Washington partecipa con un nucleo di opere di Antoon van Dyck, autore anche del ritratto di «Agostino Pallavicino in veste di ambasciatore al pontefice» (1621-23) in arrivo dal Getty Museum di Los Angeles, mentre il Los Angeles County Museum ha accordato «Il sacrificio di Noè dopo il diluvio» del Grechetto (1645-50 ca). I collezionisti privati genovesi hanno collaborato con entusiasmo e opere di rilievo vengono anche da luoghi monumentali e da musei della città, tra cui un esuberante e gigantesco ritratto di «Giovanni Carlo Doria a cavallo» (1606) di Pieter Paul Rubens, prestato dalla Galleria Nazionale di Palazzo Spinola di Genova.
Piero Boccardo, a causa del Covid-19 Washington ha dovuto annullare la propria tappa mentre le Scuderie mantengono la mostra in programmazione. Come è stato possibile?
Ci sono due significati. Il primo è proseguire la nostra attenzione nei confronti dell’immensa varietà delle tradizioni artistiche delle diverse città italiane. Il secondo è che la mostra avrebbe dovuto tenersi nel settembre 2020 subito dopo l’inaugurazione del Ponte San Giorgio: abbiamo quindi voluto mantenere l’impegno per celebrare una città ferita e poi risanata.
Quali sono le peculiarità del Barocco genovese?
Le peculiarità del Barocco genovese dipendono dalla particolare situazione politico-economica della Superba in quei secoli. L’ordinamento di governo repubblicano evitò l’affermazione di un gusto ufficiale e facilitò la compresenza di filoni culturali anche molto diversi tra loro: dal Caravaggismo all’influsso di Rubens e dei maestri fiamminghi, da un naturalismo, influenzato anche dalle Fiandre, a un Barocco di ascendenza esplicitamente romana, fino a un classicismo di matrice emiliana che declina contemporaneamente a un primo gusto rococò ispirato dalla Francia.
All’epoca il linguaggio barocco genovese valicò i confini italiani?
In modo diverso, la cultura barocca genovese ha avuto riscontro anche fuori dei confini della Repubblica e perfino italiani. In particolare, merita ricordare che Rubens vide nelle dimore genovesi un modello architettonico da proporre non solo in patria ma addirittura in Europa. Van Dyck, invece, elaborò a Genova un modello di ritratto che continuerà ad applicare anche quando, invece dei ricchi finanzieri genovesi, si trovò a effigiare il re e la regina d’Inghilterra.
Quali sono le opere in mostra più significative in questa vostra visione e revisione aggiornata del Barocco genovese?
Lasciando da parte i capolavori di Rubens e Van Dyck, gli artisti che permettono di meglio comprendere la portata e il vero senso del Barocco genovese sono, in primo luogo, Castiglione, del quale presentiamo tutta la sua versatile produzione, e un nucleo di pittori che lavorano a metà Seicento e che ne esprimono in pieno le peculiarità: Gioacchino Assereto, che si potrebbe porre in un ideale dialogo con Rembrandt, e poi la triade costituita da Valerio Castello, Domenico Piola e Gregorio De Ferrari. In ultimo non si può dimenticare la produzione inerente alle arti applicate di qualità pari a quella della Roma o della Parigi di quegli anni.
Jonathan Bober, quali erano le aspettative sulla ricezione del pubblico americano di quella che doveva essere la prima mostra sul tema negli Stati Uniti?
Certamente la «potenza espressiva» e la «qualità assoluta» del Barocco genovese. All’inizio, quando abbiamo promosso il progetto, lo slogan pubblicitario era che la mostra avrebbe offerto «l’arte più spettacolare che non conosci». Abbiamo poi spiegato come la scuola genovese di questo periodo fosse l’esempio per eccellenza di una situazione di scambi geografici e stilistici aperti e continui, «multicultural».
Qual è stato il reale supporto dei musei statunitensi in termini di prestiti?
Grazie soprattutto agli sforzi di promozione di William Suida, consigliere del grande collezionista Samuel Kress negli anni Cinquanta, nei musei americani si trovano un certo numero di opere genovesi eccellenti e dei nomi più noti, come Strozzi e Magnasco. Certi direttori e conservatori avveduti e appassionati del Barocco italiano avevano acquistato delle opere significative. I musei si erano messi a nostra disposizione per la mostra, con opere a volte sottovalutate nella loro sede attuale. Alcune, come la stupenda «Ultima Cena» di Strozzi del Museo di Worcester, sarebbero state prestate e viste da un grande pubblico per la prima volta.
Franco Boggero, come avete concepito il percorso espositivo?
Uno sviluppo cronologico scandito da dieci tappe: dal primo Seicento, quando sono presenti a Genova Rubens, Procaccini, Van Dyck, Vouet, Gentileschi, passando attraverso i momenti paralleli del naturalismo elaborato dai pittori locali e della prima affermazione del Barocco, fino al Settecento, con artisti che interpretano il classicismo romano ed emiliano e altri che reinterpretano la cultura francese coeva. A conclusione fuori da tutti questi schemi: il visionario Alessandro Magnasco. In questo quadro generale si inseriscono dei veri e propri approfondimenti legati alla produzione scultorea e alla grande decorazione ad affresco evocata attraverso disegni e bozzetti.