«Uzbekistan: l’Avanguardia nel deserto» è un progetto in due sedi (Venezia e Firenze, catalogo Electa) che, per la prima volta in Italia e in Europa, illustra luoghi, vicende e personaggi sconosciuti ai più, esponendo opere provenienti dal Museo Nazionale di Tashkent e dal Museo Savickij di Nukus, il Museo Statale d’arte del Karakalpakstan. Già di per sé due luoghi tutti da raccontare.
La doppia mostra, promossa e sostenuta dalla Fondazione Uzbekistan Cultura, è anche la storia di un proficuo dialogo interculturale, lungo gran parte del XX secolo, tra artisti uzbeki, kazaki, armeni, russi d’Oriente, siberiani. La storia di un incontro tra Occidente e Oriente, tra centro e periferia. Da una parte l’Avanguardia di matrice occidentale (Kandinskij e Rodcenko su tutti), elaborata nelle capitali russe e poi sovietiche (le attuali San Pietroburgo e Mosca) e via via diffuse a Est, nelle ex repubbliche sovietiche centroasiatiche, e in particolare nel territorio uzbeko profondamente segnato anche dalla sua ultramillenaria storia islamica, lungo la Via della Seta.
Dall’altra, la produzione del tutto originale e autonoma di un’«Avanguardia Orientalis», una scuola nazionale unica e affascinante che vede protagonisti autori pochissimo noti in Occidente, come Volkov, Karachan, Kashina e Korovaj. È su questo incontro che si basa il progetto curato da Silvia Burini e Giuseppe Barbieri, direttori del Centro Studi sull’Arte Russa dell’Università Ca’ Foscari Venezia, coadiuvati da un prestigioso comitato scientifico internazionale. In mostra sono circa 150 opere, soprattutto dipinti su tela, affiancati da una selezione di testimonianze della tradizione tessile uzbeka.
Nella sede di Venezia «Uzbekistan: l’Avanguardia nel deserto» reca il sottotitolo «La forma e il simbolo» (dal 17 aprile al 29 settembre nella sede di Ca’ Foscari Esposizioni): due termini che fanno riferimento all’influenza esercitata sulla pittura del Centro Asia dall’Avanguardia storica russa mediante le opere in parte inviate a Tashkent, in altra parte raccolte a Nukus. In mostra opere mai esposte fuori dall’Uzbekistan, tra cui due olii e due disegni su carta di Kandinskij (nel museo di Tashkent fin dagli anni ’20), accanto a lavori di Lentulov, Maškov, Popova, Rodcenko, Rozanova. Per la prima volta sono esposti dipinti e grafiche del Gruppo Amaravella, impegnato tra 1923 e 1928 a tradurre visivamente i temi cruciali delle teorie «cosmiste» all’epoca diffuse nel mondo russo.
A Firenze, il sottotitolo della mostra è «La luce e il colore» (dal 16 aprile al 30 giugno a Palazzo Pitti), tratto idealmente da un passo dell’Autobiografia di Igor’ Savickij (Kyiv, 1915-Mosca, 1984), per molti versi illuminante: «Questi luoghi sono caratterizzati da un colorito sottile, dove il colore, in un’infinita varietà di combinazioni e di armonie, ti forza ad arricchire la tua percezione ed ammaestra l’occhio a essere particolarmente sensibile a queste variazioni raffinatissime e al contempo intense e pittoresche che non solo rendono i luoghi particolarmente attraenti, ma li trasformano anche in un’originale scuola che sviluppa la percezione del colore e della luce e conferisce particolare vivacità alla visione cromatica». Così scriveva quello che, sotto molti punti di vista, è il grande protagonista di questo progetto espositivo, che a Palazzo Pitti porta in particolare opere degli anni ’20-’30 di Volkov, Nikolaev (Usto Mumin), Elena Korovaj e molti altri, realizzate a Samarcanda, Bukhara, Tashkent, nel deserto e nelle oasi.
Archeologo di formazione, pittore dilettante ma talentuoso, collezionista felicemente compulsivo, dalla fine degli anni ’50 e fino agli anni ’70 Savickij ha raccolto a Nukus migliaia di reperti archeologici e manufatti di artigianato e arte popolare della regione, ma in seguito (e soprattutto) molte migliaia di dipinti e di opere grafiche provenienti dall’Uzbekistan e dall’Unione Sovietica, rintracciate negli atelier degli artisti o acquistate da vedove ed eredi, «nei “deserti” del rifiuto staliniano e post staliniano per la modernità dell’Avanguardia di inizio Novecento», sottolineano i curatori.
È a lui che si deve il museo di Nukus, inaugurato nel 1966: quel «Louvre nel deserto» che oggi è meta di flussi di turisti internazionali che mai altrimenti si spingerebbero in quel luogo remoto, lontanissimo dalle grandi attrazioni di Samarcanda e Bukhara e raggiungibile dalla capitale Taskent soltanto in aereoplano. Ma è lì che si ritrovano le radici dell’arte moderna in Uzbekistan, e una delle più grandi collezioni d’Avanguardia russa nel mondo, seconda in termini di quantità solo a quella del Museo Russo di San Pietroburgo.
Oggi, dopo i restauri realizzati sia a Nukus che a Tashkent appositamente in vista della doppia mostra di Venezia e Firenze, molte di queste opere sono accessibili anche al pubblico europeo: straordinarie scoperte, e in alcuni casi veri capolavori.