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Alberto Bolaffi

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Alberto Bolaffi

Le donne quando hai venticinque anni

Umberto Allemandi ricorda Alberto Bolaffi: «Nessuno come lui. Nessuno così poliedrico e nessuno con un sense of humour inesauribile, straripante quanto il suo. Segnale incontestabile di un’incontenibile intelligenza creativa» 

Umberto Allemandi

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La prima cosa che mi è venuta in mente ricevendo stamattina (16 luglio, Ndr) la notizia, forse la racconterò alla fine di questo breve ricordo perché so che piacerà a chi l’ha conosciuto bene. Dal punto di vista professionale, la cosa che ho subito pensato potrà sembrare un’affermazione paradossale ed è che Alberto Bolaffi probabilmente è stato il più inventivo editore italiano del dopoguerra, anche se le sue invenzioni non sono state quelle che tutti abbiamo più memorizzato come la Bur o gli Oscar Mondadori o le Garzantine o i Maestri del Colore di Giovanni e Dino Fabbri o le Figurine Panini. Anche se Alberto non era certo una star intellettuale molto autoconsapevole, del genere per intenderci Giulio Einaudi o Roberto Calasso. Ma quando fuggimmo dall’Ospedale di Aosta, lasciando la sua Ferrari blu penzolante da un ponte dopo uno scontro frontale, e arrivammo zoppicanti a Francoforte, con i nostri cerottoni sulla fronte e sul mento, diventammo quell’anno i due giovani editori italiani più popolari della Buchmesse.

Alberto capì subito che la filatelia e l’editoria filatelica che erano alla base della fama mondiale della ditta fondata dal nonno contenevano un segreto, e che quel segreto era una miniera d’oro: il collezionismo, cioè che siamo tutti, chi più chi meno, raccoglitori cioè collezionisti e che i cataloghi sono la base di ogni collezionismo, includendo nella categoria anche ogni forma di hobby.

Se collezioni i francobolli del Mozambico vuoi sapere quanti sono, quali sono e quanto costano. Se ti piace l’arte vuoi sapere chi sono gli artisti, quali e quante opere hanno fatto e quel che valgono (pretesa ingenua), e se ti piace il mare quali barche ci sono e quanto costano, idem se ti piacciono i vini (d’Italia e del mondo), e se vai a caccia (vergogna!) o pratichi il tirassegno quali fucili si producono e così via all’infinito. Arrivando perfino a catalogare gli edifici più interessanti costruiti ogni anno.

Alberto fu letteralmente l’inventore dell’editoria (non solo italiana) dedicata al collezionismo, poi rapidamente imitata nel mondo. E di tutto ciò che al collezionista può servire: dalle bustine di plastica per ogni francobollo (a vent’anni mi mandò in Germania per trovare una ditta che progettasse il prototipo di una macchina inesistente capace di farle) agli album per contenere le collezioni di francobolli, gli unici con le strepitose copertine colorate di Piero Gallina anziché il noiosissimo similpelle color marroncino.

E dell’informazione: fu editore non di riviste «contemplative» fuori dal tempo ma di riviste utili per far conoscere l’attualità internazionale. Così nacque un grandissimo successo giornalistico: «BolaffiArte». Ma anch’esso «dotato» di un’invenzione collezionistica: a ogni copertina ideata apposta da un grande artista corrispondeva in ogni copia una bella stampa da incorniciare, ma (udite!) cinquemila stampe ciascuna firmata a mano dall’artista in dono per chi si abbonava. Una follia. Nacque così una fantastica collezione di autografi di centinaia di grandi artisti come de Chirico, Warhol, Miró, Henry Moore, Dalí, Beuys, Rauschenberg, Man Ray eccetera: il meglio del mercato mondiale. Infatti cinquemila non bastarono: dovemmo inventare una copertina bis.

Nacquero riviste Bolaffi (poi con Mondadori) per gli orologi e i gioielli, per l’antiquariato, per il turismo: la coloratissima «WeekEnd», la prima per i viaggi e il tempo libero (quando in Italia esisteva solo una timida rivista in bianco e nero del Touring Club).

Editore dell’effimero? Alberto ebbe anche il coraggio di intraprendere opere di straordinario interesse scientifico, sostenendo impegni finanziari vertiginosi: il Dizionario dei pittori e degli incisori italiani d’ogni tempo in undici volumi, affidato alla direzione di Gianni Romano, nel paese dell’arte rimane tuttora un unicum.

Ecco l’altro aspetto vincente: scovare per ogni opera lo specialista massimo vivente. Un fuori classe come Gianni Romano con centinaia di specialisti per il Dizionario, un Tito Anselmi per il catalogo delle Fiat, un Luigi Veronelli per i vini, Bruno Ziravello e Paolo Caliari per lo Yachting, Luigi Carluccio per l’arte moderna eccetera: tutti numeri uno.

Il capolavoro fu il catalogo annuale d’arte moderna: esserci divenne per molti «soi disant» la patente di artista (con tanto di autoquotazione). Alberto decise che per dimostrare d’essere artista ed entrare nel catalogo bastava la pagina di pubblicità di una sua mostra: gli artisti facevano la coda per ordinare la loro pagina. In migliaia. Un cascata di denaro con la quale fu comprata la bella sede della «Merveilleuse» in via Cavour, a Torino.

Anche il primo libro al mondo concepito e stampato con un computer fu un catalogo Bolaffi: l’International Catalogue of Modern Art (1976) con i risultati di tutte le aste nel mondo e le fotografie di tutte le opere. Per i bibliofili una rarità assoluta, accostabile al primo libro stampato. Probabilmente oggi costosissimo.

E l’Alberto filatelista. Di rarità scoop come il Gronchi rosa, del Penny Black, dei voli spaziali. E collezionista di autografi, come il «bon à tirer» di Einstein per la sua Zur allgemeinen Relativitätstheorie (Accademia Prussiana delle Scienze, 1915). E appassionato di cavalli e dunque creatore del Quadrifoglio, un Eden nazionale molto British per gli ippofili in una valle di Sciolze vicino a Torino. Volle arredare tutti i suoi uffici solo con scrittoi, librerie e armadi ottocenteschi. Editava cravatte sontuose con immagini di francobolli, foulard di seta con i vecchi affiches, caramelle di Stratta per Bolaffi con la goccia dentro e una tradizionalissima eau de toilette per collezionisti. E fu il massimo promotore del collezionismo di manifesti pubblicitari, suscitando la convinta ammirazione di Federico Zeri. Ma perfino ardito ideatore di ardite teorie evoluzioniste ed economiche.

Non posso continuare questo elenco sconfinato di straripanti invenzioni, ma mi piace ricordare l’Alberto privato, tra i primissimi collezionisti di Schiele e proprietario della versione preparatoria del «Quarto Stato» di Pellizza da Volpedo.

Qui mi fermo, non voglio entrare nelle nostre storie personali, o nelle sue innovazioni in territori a me poco o per nulla noti dopo la fine dei nostri rapporti diretti di lavoro. E neppure nei nostri strettissimi rapporti di amicizia e di stima.

Fu profetico nel novembre scorso quando mi disse, già sofferente: «Voglio pubblicare un librino con le mie idee sul collezionismo come bene rifugio e voglio che lo pubblichi tu». Lo introduceva questa frase: «Non ho ancora scritto un’autobiografia, ma se dovesse accadere il titolo sarebbe: “Per mancanza di tempo ho  fatto troppe cose, ma tutte male”». È probabile che immaginasse che ormai un’autobiografia non l’avrebbe più scritta anche se ne aveva tanta voglia. E che quel librino era il palliativo nel quale mettere pillole delle molte cose che avrebbe voluto dire. La perdita di Nicoletta (la moglie, scomparsa lo scorso febbraio, Ndr) lo sconvolse oltre l’immaginabile, da allora non fu più lui.

Anche la mia come la sua è stata una lunga vita nella quale ho conosciuto moltissime persone, talune molto bizzarre e alquanto eccentriche (Dalí, per esempio), ma devo dire: nessuno come Alberto. Nessuno così poliedrico e nessuno con un sense of humour inesauribile, straripante quanto il suo. Segnale incontestabile di un’incontenibile intelligenza creativa.

Perciò ora mi diverte e oso ricordare quando lui ed io e il nostro indimenticabile amico e maestro di editoria Lorenzo Mauri (che distribuiva i libri Bolaffi) sbarcammo da un Caravelle sulla pista di Orly per andare a incontrare la mitica Yvonne Bernardet, capa mondiale delle coedizioni Hachette, allora la più importante casa editrice del mondo, amica di Luciano, perché voleva pubblicare nel mondo i cataloghi d’arte Bolaffi.

«Perché non ci diamo del tu?», gli disse all’improvviso Alberto camminando sulla pista. «Ma certo!» rispose Luciano. E lui subito: «Io ho ventitré anni, Umberto ventuno. Tu quanti anni hai?». «Venticinque» risponde Luciano. Breve pausa, poi la stoccata: «Scusa, Luciano, alla tua età le donne le guardate ancora?». Luciano imperterrito sorride, mentre continua a camminare, tace per qualche istante poi col braccio ci ferma tutti e tre: «Scusate, ma voi alla vostra età le donne le guardate già?». 

Il lettore ha già capito che la parola vera non era «guardare». Fu così che da allora cominciammo a essere amici. Molto amici. Abbiamo continuato così per sessantasei anni.

Umberto Allemandi, 17 luglio 2025 | © Riproduzione riservata

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