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Federico Zeri a Roma nel 1988. Foto Gianni Berengo Gardin

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Federico Zeri a Roma nel 1988. Foto Gianni Berengo Gardin

ANNO ZERI | Zeri in condotta

In occasione del convegno «Anno Zeri», la memorabile intervista nel primo numero di Il Giornale dell’Arte: «Una povera Italia di finti intellettuali, di una finta sinistra, di donnette e di semianalfabeti»

Umberto Allemandi

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Gli amici di Federico Zeri (Roma, 12 agosto 1921-Casali di Mentana, Rm, 5 ottobre 1998) ogni anno d’agosto erano soliti recarsi nella sua villa della campagna romana per il compleanno del «professore», che lo scorso agosto avrebbe festeggiato le cento candeline. Ormai la villa di Mentana lasciata in eredità all’Università di Bologna è in completo degrado, vuota e oggetto di furti, ma la Fondazione Zeri, creata da Anna Ottani Cavina e diretta da Andrea Bacchi, dopo la consueta chiusura del mese di agosto si appresta a ricordare l’anniversario a settembre, con diverse iniziative.

Il 23 settembre, presso la sede universitaria del convento di Santa Cristina, si tiene il convegno «Anno Zeri», con interventi del ministro Dario Franceschini, del rettore dell’Alma Mater Francesco Ubertini, del nipote di Zeri, Eugenio Malgeri Zeri, e di Mauro Natale, oltre che di Bacchi e Ottani Cavina. Saranno inoltre presentati due volumi: Il mestiere del conoscitore. Federico Zeri e Zeri/Longhi-Longhi/Zeri: le lettere 1946-1965 (entrambi Silvana Editoriale). Per il centenario la Rai, infine, ha prodotto un documentario sul celebre conoscitore cui hanno preso parte Paolo Mieli, Andrea Bacchi, Adriana Capriotti, Marco Carminati, Melania Mazzucco, Anna Ottani Cavina e Pierre Rosenberg. [Stefano Luppi]


Il primo numero di «Il Giornale dell’Arte», uscito nel maggio del 1983, ospitava un’intervista a Federico Zeri intitolata «Italia, Zeri in condotta» (curiosamente, lo stesso titolo della copertina di «Robinson», il supplemento culturale del sabato di «la Repubblica» uscito in edicola l’11 agosto di quest’anno). In quel lungo e dettagliato testo, Zeri affrontava molti temi di attualità, ma proponeva anche considerazioni di carattere generale guardando all’Italia e all’estero. A 100 anni dalla nascita, ne riproponiamo alcuni ampi stralci.

ITALIA, ZERI IN CONDOTTA

Federico Zeri è probabilmente oggi lo storico dell’arte italiano più noto nella connoisseurship internazionale. Nato a Roma nel 1921, è stato allievo di Pietro Toesca e di Roberto Longhi. Oltre a numerosi saggi apparsi sulle principali riviste di storia dell’arte, ha pubblicato Pittori e controriforma (1957), Due dipinti, la filologia e un nome (1961), Diari di lavoro 2 (1961) e il recentissimo Mai di traverso; è autore tra l’altro del catalogo dei dipinti italiani del Metropolitan Museum di New York, e trustee del Getty Museum di Malibu. La sua insaziabile curiosità per ogni evento, opera, persona dalla politica alla moda, dalla comunicazione visiva all’amministrazione pubblica, dalla letteratura al cinema, dalla pubblicità al costume, le sue doti di acuto saggista e di elegante quanto bruciante elzevirista (scrive su «La Stampa» di Torino), la sua reputazione di connoisseur colto e meticolosamente documentato, il suo acume attribuzionistico, il suo incontenibile sense of humour e l’implacabile sarcasmo lo hanno reso uno dei personaggi più ammirati, corteggiati e temuti dell’arte italiana. Zeri ha concesso questa ampia intervista a «Il Giornale dell’Arte» nella quale descrive in modo sferzante i non pochi mali antichi e attuali che affliggono il nostro Paese nel campo dell’arte.

Perché lei è sempre pessimista per ciò che concerne la conservazione del patrimonio artistico italiano?
La mia opinione è negativa perché va male sia per le cose pubbliche sia per le cose private. Per le cose pubbliche manca come al solito, nonostante l’istituzione del Ministero dei Beni culturali, un piano generale; manca assolutamente una struttura organica. Basta vedere la questione dei musei di Roma, oppure il caso clamoroso della collezione Ponti-Loren: tutto è fatto così, all’improvviso, da Terzo mondo. I privati sono spaventati dai continui attacchi che hanno subito negli ultimi anni da parte di una certa stampa e di certi uomini politici di una finta sinistra, sottolineo: finta, cioè che non è una vera sinistra. Attacchi demagogici pretestuosi, elettorali hanno spaventato i collezionisti. Sono arrivati al punto di dire che chiunque desidera possedere un’opera d’arte, commette un reato contro la collettività! È logico che la gente non lasci vedere più niente: nasconde ed esporta clandestinamente, mentre la storia insegna che i musei vanno bene o male a seconda se vanno bene o male le cose private.

Anche le società...
Anche le società, a meno che uno non consideri come società ideale quella delle deportazioni in massa, del gulag, dei campi di sterminio. Comunque la faccenda Ponti-Loren è di una gravità inaudita. La collezione è stata formata a Roma, rappresenta il gusto della capitale negli anni ’50, ’60 e ’70, è tutta formata con oggetti comprati da galleristi romani, o per lo meno nella stragrande maggioranza. Viene sequestrata a Milano e nel modo in cui viene divisa vi è una sola proposta ragionevole: quella di mandare i Morlotti a Lecco (città di nascita dell’artista e sede di un nuovo museo, Ndr). Ma nemmeno tutti li hanno mandati.

Perché Brera può avere soltanto una parte dei Bacon? Perché mandare a Marino (cittadina laziale ove Sophia Loren e Carlo Ponti conservavano la collezione, Ndr) dei rottami, della robaccia orrenda, delle icone russe del XIX secolo, delle nature morte di dubbia autenticità? Ma perché mandare il resto a Caserta, addirittura, mi dicono, nemmeno nel Palazzo Reale, bensì in un museo di arte moderna ancora da costruire nel cuore di un quartiere di palazzinari (non faccio commenti su ciò che presumibilmente si nasconde dietro questo quartiere), il quale verrebbe valorizzato e nobilitato da questa pinacoteca? Nella collezione Ponti-Loren fra i 200 quadri ci sono pure 11 Morandi, di cui alcuni molto belli, c’è un Balla, c’è un disegno di Brancusi. Vorrei sapere che cosa rappresenta il disegno di Brancusi a Caserta! Ma non solo: Roma aveva perso il quadro di Morandi che era stato notificato e venduto all’asta per 110 milioni da Finarte. E questi vogliono mandarli a Caserta? (...)

Quali sono secondo lei le grandi raccolte di arte antica?
Vedrei tre grandi gallerie a carattere nazionale: Brera, gli Uffizi e la Galleria Nazionale di Roma. Tutti gli altri musei dovrebbero avere un carattere locale. Sarebbe stupido comprare, per esempio, una natura morta napoletana di Coppola per le Gallerie dell’Accademia di Venezia. Invece è stato fatto proprio questo: un quadro famoso del Traversi, il «Duello», aveva girato a lungo sul mercato ed è stato preso all’ufficio esportazioni di Venezia e assegnato a Venezia. Perché? Solo perché l’antiquario che lo possedeva abitava lì. (...)

Delle gallerie di arte moderna, quali dovrebbero essere a carattere nazionale?
La Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma dovrebbe rappresentare sia l’Italia che l’estero. Oggi è un cimitero di elefanti. Basta vedere gli acquisti miserandi fatti sul mercato internazionale. Solo un quadro si salva: il Courbet, che è stato comprato, lo sa perché? Sa come mai il Courbert, che è un capolavoro, è venuto a Roma? Perché era invendibile sul mercato anglosassone in quanto rappresenta un cacciatore che percuote un cane. Altrimenti sarebbe finito a New York o a Los Angeles.

Eppure esistono grandi collezioni contemporanee anche in Italia.
Certo che esistono! E alcune favolose, ed esistono in città e presso persone dalle quali tutto ci si aspetterebbe meno che una grande collezione d’arte con temporanea. A me è accaduto recentemente di essere invitato a una cena in una piccola città emiliana, e nella sala del ristorante, ad un tavolo vicino al nostro, c’era un’altra compagnia. Dopo cena, uno di quei signori si è presentato e ci ha invitato a casa sua. (...) e con mio immenso stupore ho trovato dei brutti quadri antichi, tutti espertizzati (...); e poi una serie di stanze con una raccolta di arte contemporanea da stare non dico alla pari con i grandi musei francesi, inglesi o americani, ma comunque da fare onore a qualsiasi museo svizzero. Lì per lì io sono rimasto tanto sconcertato che ho pensato a delle imitazioni: perché vedere un Picasso cubista...

Sarà stato ben consigliato.
(...) Non aveva nessun consigliere. E la cosa mi ha tanto più stupito, in quanto i quadri erano tutti di altissima qualità; non solo, ma anche molto rappresentativi degli artisti scelti. Ho visto un Modigliani e un Brancusi straordinari. (...) Ma di queste collezioni ce ne sono molte in Emilia, nel Veneto, in Piemonte, in Lombardia e, strano a dirsi, anche in Sicilia. Esiste un collezionismo dell’arte contemporanea. La cosa grave, a mio avviso, è che l’arte in Italia è stata sempre considerata come staccata dalla vita, come il privilegio di pochi, e che l’Amministrazione delle Belle Arti fa di tutto per inimicarsi i privati. Basta vedere il modo con cui trattano i commercianti. Questa gravissima separazione tra mondo ufficiale e mondo privato, tra mercato e amministrazione dei musei ha scavato un fossato e questo distacco è stato acuito dal finto marxismo degli anni ’80 di una certa borghesia la quale crede di salvarsi adottando atteggiamenti giacobini.

Lei si è duramente opposto alla disgregazione della raccolta Ludovisi ma la sua protesta e quella di altri studiosi non sembra sia stata ascoltata. Lei non ha funzioni pubbliche né appoggi di partiti. Ritiene tuttavia che esista ancora spazio per la protesta privata? 
La situazione italiana delle Belle Arti è esemplificata in modo flagrante e palmare da quello che sta succedendo nel Museo Nazionale Romano. Si tenta di distruggere un museo, mandando al Quirinale come oggetti di arredamento i marmi della collezione Ludovisi. Il grande sarcofago Ludovisi, che è l’unica tomba di imperatore romano rimasta, la tomba di Ostigliano, la metterebbero sotto i portici del cortile... all’aperto! Da una parte si fa la mostra del restauro nell’Ara Pacis che viene coperta da vetrate, e poi si mettono all’aperto i marmi Ludovisi? In realtà quello che è importante per una certa classe di finti intellettuali è la mostra, l’inaugurazione, l’ostentazione di cultura da donnette, da semianalfabeti, l’articoletto sul quotidiano. Un museo è fatto di un contenitore e di un contenuto. Nel caso del Museo delle Terme si cerca di distruggere il contenuto dopo aver lasciato degradare in modo incredibile il contenitore. Si sono lasciate crollare addirittura per negligenza le volte delle Terme travolgendo il sarcofago di Pietralata, che è uno dei grandi monumenti dell’arte romana. Si cerca di mandare all’aperto la collezione Ludovisi e si è restituita, non so in base a quale principio legale, all’Albania la testa della dea di Butrinto. (...)

Lei ha preso posizione anche sui Fori Imperiali ed è stato ascoltato.
Come ho scritto, non sono contrario in linea assoluta allo scavo di via dei Fori Imperiali. La via dei Fori Imperiali sostituisce quello che era il Foro Romano prima dello scavo, cioè il collegamento fra alcuni quartieri di Roma che erano rimasti poi interrotti, privi di collegamento. (...)

Quali sono le ragioni non ufficiali di questo scavo ?
Secondo me, innanzitutto c’è una ragione di esibizionismo. Gli intellettuali, nei momenti più critici, quando il loro potere sta per crollare, si abbandonano sempre a una specie di baccanale di progetti insensati che sono contrari a quelli che sono gli interessi della comunità. Questo è successo dalla Rivoluzione francese in poi. È caratteristico. In genere, ripeto, questi fatti avvengono quando il loro potere sta per crollare. In questi ultimi mesi noi abbiamo assistito al progetto di smembrare il Museo Nazionale delle Terme, al progetto di distruggere la via dei Fori Imperiali, al progetto di demolire il Vittoriano: caratteristico progetto! Nell’Unione Sovietica negli anni ’20 purtroppo è stato eseguito il progetto di demolire la cattedrale di Mosca. Nel momento in cui la gente faceva file per la strada con decine di gradi sotto zero per avere 40 grammi di pane, sono stati spesi miliardi e miliardi per demolire il capolavoro dell’arte russa dell’800.

In questo furore distruttivo ci sono intenzioni demagogiche?
L’intellettuale a un certo momento, quando non è legato alla vita e alla cultura del popolo, prolifica come prolifica il tumore. Vada a vedere per esempio nel caso sovietico chi sono stati i progettisti, gli autori e gli esecutori della demolizione della cattedrale. Fra parentesi la informo che tutti, ripeto tutti, sono stati processati e fucilati da Stalin. Tutti. Mi diceva un amico dell’Unione Sovietica che è interessante accertare come Stalin, questo grandissimo personaggio che sapeva come trattare gli intellettuali e che guardava le liste dei processati nome per nome, li abbia ricercati, processati e condannati tutti: persino coloro che avevano effettuato il trasporto delle macerie. E come le famiglie siano state prelevate e mandate lontano, in posti molto freddi per essere rieducate a una nuova concezione di quella che è la socialità. E questo è successo anche negli ultimi mesi del terrore nella Rivoluzione francese. Le inaudite e balorde devastazioni della Sainte Chapelle, per esempio, a Parigi o la demolizione di Cluny. Cose aberranti. Questo è caratteristico degli intellettuali quando sono lasciati a sé stessi.

Come può un intellettuale «cadere così in basso»? 
Un intellettuale è una creazione della civiltà moderna, è una creazione della rivoluzione francese, l’intellettuale è colui che organizza le grandi feste, oggi feste dell’effimero a Roma; intellettuale è colui che spende miliardi per buffonate mentre un vecchio ricoverato in un ospizio della stessa città viene mangiato dalle formiche.

Ma allora la responsabilità e la gestione delle cose dell’arte, a chi dovrebbe essere assegnata?
A un’amministrazione che sia veramente tale, non la portatrice o l’esecutrice di ideologie aberranti o completamente avulse da quella che è la situazione.

Ma vi sono persone capaci di questa autonomia?
Certo che ce ne sono. L’università prepara a questo. Naturalmente non prepara in quei posti dove la cattedra è affidata a gente la quale scambia un pollo arrosto con un Cristo risorto. Questo è evidente. (...)

Negli altri Paesi quali istituzioni hanno questa funzione?
Abbiamo una situazione molto buona nell’Inghilterra. Per esempio, il Victoria and Albert Museum organizza dei corsi di specializzazione. Prende dei giovani laureati e li fa vivere accanto alle opere d’arte, accanto ai problemi della loro sopravvivenza fisica. E quella è la cosa importante. (...)

La concorrenza di un’università privata potrebbe dare un salutare scossone all’università di Stato?
L’università italiana sarà sempre un rottame finché non ci saranno università alternative. La grande università nasce sempre dalla concorrenza con un’altra università. Le università di lingua tedesca sono state grandi finché ci sono stati due stati ricchi che si sono disputati i migliori professori: l’Austria-Ungheria e la Germania. Il giorno in cui l’Austria-Ungheria è declinata, anche l’università è precipitata. Perché le università anglosassoni oggi stanno all’apice? Perché tutti i Paesi di lingua anglosassone, Inghilterra, Canada, Australia e Stati Uniti, si disputano i professori. Quando l’università è un unico organismo statale in cui i concorsi valgono per tutto il territorio nazionale, come nell’università italiana, non può esserci altro che la rovina.

Può esserci un futuro in Italia per l’università privata?
Dovrebbe essere privata e finanziata da privati, senza nessun contributo statale. Come le organizzazioni tipo Touring Club o Italia Nostra: sono efficaci solo se finanziate da privati. Il giorno che prendono i soldi dallo Stato diventano dei carrozzoni.

L’Italia non soffre di una concezione ancora troppo accademica dell’arte?
È l’eredità dell’Idealismo che ci ha rovinato. Adesso l’editore Franco Maria Ricci ha pubblicato un libro sulle scatole dei biscotti intitolato Biscuits. (...) Tuttavia queste scatolette, come le réclames, le consideriamo ancora come qualche cosa da evitare mentre quella è vera civiltà figurativa. Il disprezzo verso queste manifestazioni è lo stesso che ha condizionato l’atteggiamento dei critici d’arte nei confronti dei francobolli, della carta moneta, degli ex voto. L’arte figurativa è considerata semplicemente un’appendice alla comunicazione parlata. Per me è tutto arte: anche il modo di parlare, di gestire con le mani, di mangiare. Tutto è espressione della personalità umana. Che poi questa espressione sia estremamente complessa, come nella scuola di Atene di Raffaello, o che sia a uno stato superficiale, come nelle scatole di biscotti, è un altro conto. Ma non vedo per quale motivo si debba preferire l’una all’altra. O perché si debba addirittura eliminare una attuale espressione figurativa a favore degli strati archeologici. Per far ciò occorre una larga sensibilità che scavalchi il nozionismo settoriale dello specialista. Bisogna prima essere conoscitori, poi si può anche diventare iconologi, storici dell’arte. La stessa conoscenza del mercato dell’arte non si può fare se non si è conoscitori. E questo è il problema delle riviste che pubblicano i risultati d’asta. Se l’attribuzione è sbagliata, che significato hanno quelle indicazioni dei prezzi? Nessuna.

Conoscitori si nasce o si diventa?
Ma certo che lo si diventa. (...) Tutti hanno lo stesso grado di intelligenza. Si diventa conoscitori frequentando antiquari, restauratori, visitando musei. E questo dovrebbe far parte dell’insegnamento universitario; ma qui invece dicono che il commercio antiquario è qualche cosa di peccaminoso! Viene applicato in Italia, per ciò che riguarda la proprietà delle opere d’arte, un criterio che era quello dei rivoluzionari russi degli anni ’10 e ’20 e che andava benissimo per un Paese come la Russia, dove la produzione locale a destinazione delle masse era soltanto quella delle icone. I collezionisti di opere d’arte, che generalmente erano importate dall’Occidente, appartenevano a un’élite che era poi quella stessa classe dirigente che la Rivoluzione voleva abbattere. Ma in Russia non c’era stata mai una produzione di ritratti o di paesaggi a uso e consumo dei privati. In Italia sì, per secoli. E allora vogliamo confiscare tutta questa roba per metterla dove? Per amministrarla e gestirla come? Questa è la grande differenza che c’è tra Paesi come il nostro e la Francia da una parte e la Russia e certi Paesi dell’Europa Orientale dall’altra, dove la produzione delle opere d’arte era fatta per la collettività (...) . Qui c’è stata una produzione che è durata per lo meno 700-800 anni. E adesso diciamo che possedere tutto ciò è un peccato contro la collettività? Queste sono aberrazioni. (...)

Chi esercita un effettivo potere nell’arte in Italia?
Innanzitutto ci sono i grandi baroni universitari. Se si esamina il loro curriculum e la loro posizione, ci si accorge che hanno in mano università, Consiglio Superiore delle Belle Arti, case editrici, riviste. I potentati assolutamente non vogliono che il loro potere sia spartito con altri e quindi ostacolano in tutti i modi la posizione di coloro che ad essi non sono sottomessi perfino con calunnie e diffamazioni. Chi non è ad essi aggregato è come se non esistesse.

Questo potere è di origine politica?
Certo. In Italia ormai tutto è politicizzato. L’Italia è un Paese cattolico. Una volta il potere veniva dalle istituzioni religiose; oggi i partiti hanno preso il posto degli ordini. (...)

È incredibile in un Paese con il patrimonio artistico dell’Italia...
Si stupisce? Pensi a chi sono stati i ministri dei Beni Culturali...

Come spiega che lei è l’unico in Italia a non stare zitto?
Non è vero che ci sono solo io, altra gente protesta. C’è per esempio Giuliano Briganti. L’Italia è una società a strati: c’è chi protesta andandosene via o emarginandosi.

Anche lei ad un certo punto ha lasciato, dimettendosi dall’Amministrazione. Perché?
Perché non volevo essere assolutamente coinvolto in un’amministrazione che consideravo del tutto negativa.

Non gliel’hanno mai perdonato.
No, ma questo mi ha fatto molto piacere. Mi interessa molto di più avere un ruolo nei Paesi dove c’è ricchezza, potere e cultura, che in un Paese dove non c’è né ricchezza, né potere, né cultura. Preferisco sempre, nonostante tutto, gli Stati Uniti, la Germania o l’Inghilterra al Libano, all’Albania, all’Italia.

Lei ha detto in privato di avere un rigetto per l’arte italiana. Perché?
Perché mi sono stancato. Non mi interessa più. Mi interessa fino a Cimabue. L’ultimo grande artista è Giotto. Poi l’arte occidentale riprende con Picasso.

Le interessa l’arte contemporanea?
Sì, moltissimo. Trovo nell’arte contemporanea, anche brutta, una concentrazione di idee e di pensieri che manca nell’arte che noi consideriamo antica, cioè nell’arte del ’600 per esempio. In un brutto quadro di Depero, c’è una concentrazione che manca completamente in Lodovico Gemignani..
 

Federico Zeri a Roma nel 1988. Foto Gianni Berengo Gardin

Umberto Allemandi, 22 settembre 2021 | © Riproduzione riservata

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