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Nicoletta Biglietti
Leggi i suoi articoliA Palazzo Grassi la pittura di Michael Armitage entra in scena senza preamboli. Colpisce subito, costringe a rallentare lo sguardo. Dal 29 marzo 2026 al 10 gennaio 2027 la Pinault Collection dedica all’artista una mostra ampia e articolata, costruita come un attraversamento continuo della sua ricerca più recente, ma capace di restituirne anche le radici profonde. Un percorso che tiene insieme immagini potenti e tensioni storiche, memoria individuale e racconto collettivo, visione e cronaca.
Curata da Jean-Marie Gallais, con la collaborazione di Hans-Ulrich Obrist per il catalogo, Caroline Bourgeois e la storica dell’arte Michelle Mlati, la mostra riunisce un nucleo significativo di opere realizzate negli ultimi dieci anni. Dipinti di grande formato e disegni scandiscono il percorso, articolato attorno ai temi che attraversano con continuità il lavoro di Armitage: l’irruzione del politico nella vita quotidiana, la mitologia come strumento di lettura del presente, la sessualità, le migrazioni. Le composizioni sono dense, cromaticamente accese, spesso monumentali. I riferimenti all’Africa orientale si intrecciano con la storia dell’arte occidentale – senza gerarchie – in immagini che restano volutamente instabili.
È in questa tensione che si riconosce il cuore della sua pittura. Le opere presentate a Palazzo Grassi costruiscono paesaggi abitati e allucinatori allo stesso tempo, spazi in cui il reale scivola nel simbolico e il racconto storico si trasforma in visione. La memoria personale dell’artista si innesta nella storia collettiva del Kenya, facendo emergere episodi della sua storia recente accanto a immagini che sembrano appartenere a un tempo mitico. Nulla è illustrativo. Tutto resta in bilico. Questo sguardo nasce da una traiettoria biografica precisa. Nato a Nairobi nel 1984, Michael Armitage fonde fin dagli esordi riferimenti alla vita sociale e politica del Kenya con la mitologia e con la tradizione pittorica occidentale. Nelle sue tele si intrecciano visioni personali e immaginazione collettiva. Il fantastico si mescola al reale, i simboli ancestrali convivono con citazioni che rimandano a Goya, Gauguin o Manet.
Lo stile semi-astratto con cui racconta l’attualità del suo paese ha contribuito a definirne il profilo internazionale. Anche quando le scene sono ancorate a contesti riconoscibili, la pittura tende ad avvicinarsi a una dimensione surreale. Le figure fluttuano, gli esseri umani si mescolano agli animali, gli ambienti naturali assumono una qualità panica e ambigua. In «Three Boys at Dawn» (2022), ispirato a una visione urbana simile a quella di Dandora, la principale discarica di Nairobi, ragazzi di strada vengono trasfigurati in una scena sospesa, in cui i fenicotteri emergono come fumi e presenze illusorie.
Michael Armitage, «Curfew (Likoni March 27 2020)», 2022. Courtesy MoMa
Altre opere affrontano con maggiore frontalità la storia e le sue ferite. «Head of Koitalel» (2021) rievoca la figura di Koitalel Arap Samoei, leader spirituale e politico del popolo Nandi, ucciso dagli inglesi all’inizio del Novecento. Le cuciture del tessuto di Lubugo diventano parte integrante della composizione, segnando una frattura visiva che attraversa l’immagine. In «Curfew» (Likoni, 27 marzo 2020) (2022), prospettive invertite e immagini sovrapposte restituiscono il caos e l’urgenza della vita durante il lockdown, mentre in «Holding Cell» (2021) la violenza resta insinuata, evocata attraverso il racconto del sovraffollamento delle celle di polizia di Nairobi.
Come ha scritto Catherine Lampert, il suo approccio è sintetico ma vario: le forme fluiscono, le immagini vengono talvolta tagliate e ricomposte, il colore e la linea costruiscono equilibri provvisori. Una instabilità che riflette la natura stessa delle storie raccontate. La figurazione si appiattisce, si dissolve in passaggi di pura astrazione e poi ritorna, offrendo narrazioni multiple che finiscono per rivelarsi come miti o leggende risonanti.
Michael Armitage vive e lavora tra Nairobi e l’Indonesia. Ha studiato alla Slade School of Fine Art di Londra e alla Royal Academy Schools, ed è stato nominato Royal Academician dalla Royal Academy of Arts nel 2022. Accanto alla pratica artistica, sostiene attivamente la scena culturale del suo paese: nel 2020 ha fondato il Nairobi Contemporary Art Institute, una piattaforma no-profit dedicata allo sviluppo dei talenti dell’Africa orientale. La mostra di Palazzo Grassi accompagna questo percorso senza separare l’opera dalla sua origine. Le immagini parlano da sole, ma non si chiudono mai su se stesse. Restano aperte, attraversate da storia, visioni e contraddizioni che continuano a interrogare lo sguardo.
Michael Armitage, «Holding Cell», 2021. Courtesy White Cube.
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