Cosa accomuna Michael Ackerman, Martin Bogren, Lorenzo Castore, Richard Pak e Anders Petersen, a parte essere tutti, indubbiamente, autorevoli voci contemporanee in ambito fotografico? Certamente uno dei punti di contatto è il loro approccio nel raccontare il mondo. Il loro sguardo è diretto, puro, visceralmente connesso con la realtà, con i suoi umori, le sue pieghe, la complessità dell’esistenza e dell’essere umano.
A raccontare questa comunione di intenti e di espressioni l’esposizione «Turning point», fino al 30 settembre, alla partenopea Spot Home Gallery, che espone contemporaneamente questi cinque grandi autori con i progetti che sono stati spartiacque nella consapevolezza del loro pensiero fotografico: «End Time City» per Michael Ackerman, «Tractor Boys» per Martin Bogren, «Paradiso» per Lorenzo Castore, «Pursuit» per Richard Pak e «Cafè Lehmitz» per Anders Petersen. Loro pietre miliari, questi sono lavori che, oltre a dare loro fama, hanno rappresentato un valico montuoso oltre il quale hanno trovato la loro visione e sono evoluti, proprio partendo da quel preciso punto.
La loro pratica fotografica è tanto disarmante quanto introspettiva, anzi forse è disarmante proprio perché così introspettiva. Chi prima e chi dopo, tutti e cinque i fotografi si sono cimentati in racconti visivi che implicano la loro accettazione, l’accettazione del proprio sguardo estraneo, da parte di un gruppo di persone, una comunità, una famiglia, un ritrovo di amici, o semplicemente i variegati habitué di un bar notturno di Amburgo. I lavori esposti alla Spot Home Gallery di Napoli parlano, per l’appunto, dell’immersione dello sguardo fotografico in una realtà privata, raccontabile proprio in virtù dell’esserne parte attiva.
Il sentire di Michael Ackerman, Martin Bogren, Lorenzo Castore, Richard Pak e Anders Petersen, diventa tangibile e visibile attraverso le loro immagini, nel raccontare situazioni che li hanno coinvolti in India, a Cuba, in America, in Svezia, in Germania, un sentire talmente partecipe che è esso stesso soggetto delle loro fotografie. Padre di questo folto gruppo di fotografi che usano la loro interiorità come filtro narrativo è sicuramente Anders Petersen, con il suo famigerato Cafè Lehmitz, un racconto toccante di fine anni Sessanta su come, attraverso la fotografia, si possa descrivere la complessità umana, senza giudizi, semplicemente facendosi trasportare dal flusso della vita.