«Riflessioni di un affamato» (1894) di Emilio Longoni

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«Riflessioni di un affamato» (1894) di Emilio Longoni

A Carrara l’Italia della Belle Époque

Nel Palazzo Cucchiari un excursus della pittura italiana da Fattori a Boldini e De Nittis, da Previati a Balla e Mancini

La via per la modernità dell’arte italiana passa attraverso la ricomposizione nazionale delle scuole regionali, senza indugiare di fronte all’urgenza di un riallineamento generale all’attualità dell’arte europea. Nessuna storia parte mai da zero e quella di cui si parla nella mostra «Belle Époque. I pittori italiani della vita moderna», allestita a Palazzo Cucchiari dal 29 giugno al 27 ottobre, comincia da Firenze e dal richiamo al vero della salda eloquenza macchiaiola, che propone le sue suggestioni italiche, la sua idea di patria, rivendicando l’attualità di un’arte nazionale, come a voler contagiare il resto del Paese con il cosmopolitismo toscano, la secolare apertura al forestiero della città del Granduca. Guardando a come si aggiorna la parlata dei più osservanti la fede macchiaiola, si scopre quanto sia più composta e borghese la pittura «in divisa» di Giovanni Fattori, come mostra la «Lettera al campo», del decennio Settanta, o quanto si addomestichi, già con «La visita» del 1868, il «garibaldinismo» di Silvestro Lega, o ancora quanto si riconduca a misura d’uomo il Naturalismo di Telemaco Signorini nel dipinto «Autunno nei dintorni di Siena». 

A dimostrazione della vivacità artistica fiorentina nei due decenni a cavallo dell’Unità, basterà considerare come i più convinti seguaci della nuova pittura moderna, Federico Zandomeneghi, Giovanni Boldini, Giuseppe De Nittis, ma anche Vittorio Corcos, artefici di una ricerca più attenta alla moda e anche più desiderata dall’aristocrazia e dal gran mondo, assai prima che italiani di Parigi, furono italiani di Firenze. Ma è Parigi che, precorrendo i tempi, si candida a capitale del XX secolo e fornisce l’occasione di adeguarsi ai tempi moderni, per cui il terreno della pittura non sarà più la pacata vita nei campi ma la vibrante vita di città, un orizzonte aperto, dove rimanere fedeli alla dottrina dell’esercizio all’aria aperta. Difatti tra i luoghi animati dal desiderio di mondanità, dove sfoggiare la propria bellezza, il proprio status sociale ma anche più disinvolti interessi culturali vi sono strade, piazze, parchi cittadini, giardini pubblici o i nuovi stabilimenti balneari. 

Massimo Bertozzi

Sono questi gli scenari di una narrazione in cui si cimentano gli italiani di Parigi, basti pensare a «Au théâtre» di Zandomeneghi, o alla «Cantante mondana» di Boldini, alla signora che legge per ingannare l’attesa nell’«Appuntamento al bosco di Portici» di De Nittis, o alla tante terrazze sul mare figurate da Corcos; motivi alla moda che divengono consueti anche per Michele Cammarano e il suo «Caffè in piazza San Marco», per Ruggero Panerai, vedi la lucida «Veduta di Firenze sotto la pioggia», o ancora per Luigi Gioli con «Signore al mare». Ma alla rigenerazione di un’arte nazionale contribuisce un sentimento di ripulsa per le magagne della modernità, che è conseguenza della percezione di una rapida decadenza civile della nuova Italia: la Scapigliatura non fu solamente la versione nostrana della bohème, ma anche la manifestazione di un disagio, pure spirituale, diffuso tra gli emarginati della società, a fianco dei quali gli artisti si iscrivono. 

Così che depurano il Divisionismo alla francese dalle sue connotazioni scientifiche, per farne uno stile tutto italiano, un afflato espressivo, di forme suggestive e sentimenti profondi, come traspare dall’inquietudine nuova di un «Ritratto di donna» di Tranquillo Cremona, dalla suggestione simbolista della «Primavera» di Gaetano Previati, dal pathos delle «Riflessioni di un affamato» di Emilio Longoni, dal pietismo delle «Suffraganti» di Angelo Morbelli o dal realismo spirituale della «Processione» di Pellizza da Volpedo. È così che il Divisionismo, la parlata volgare del Simbolismo, cancella l’istanza verista dalla scena italiana, e se da una parte fornisce nuova linfa all’ultima generazione macchiaiola, com’è nella «Fiera di Pietrasanta» di Plinio Nomellini, anche in una piazza ingessata nell’ufficialità come quella romana, diventa lo sfogo di nuovi ardimenti giovanili, come quello di Giacomo Balla che coltiva, proprio come il suo «Contadino», con alcuni allievi di sicuro avvenire, Boccioni, Sironi e Severini, una delle prospettive futuriste per la pittura italiana. Mentre, come in una bolla, tra derive divisioniste e riverberi simbolisti, vive la Secessione romana, di Camillo Innocenti e Ferruccio Ferrazzi, del vecchio Antonio Mancini e del giovane Armando Spadini, forse l’ultimo anelito di carattere internazionale dell’arte italiana. 

Un’arte che immagina il futuro, ma che non lo vede arrivare e che sbatte contro il muro di una guerra che toglie speranze e alla fine ricaccerà tutto indietro, nell’illusione di rimettere insieme i cocci e di ripristinare un ordine ormai andato irrimediabilmente perduto. 

«A teatro. Nel palco» di Federico Zandomeneghi

Massimo Bertozzi, 27 giugno 2024 | © Riproduzione riservata

A Carrara l’Italia della Belle Époque | Massimo Bertozzi

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