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Rischa Paterlini
Leggi i suoi articoliCi sono fotografi che osservano ed esplorano, e altri che costruiscono mondi. David Doubilet (New York, 1946) appartiene a entrambe le categorie. Pioniere della fotografia subacquea, da oltre mezzo secolo trasforma la vita degli oceani in immagini che uniscono la precisione del documento alla forza visionaria di un dipinto. Al suo fianco c’è Jennifer Hayes, scienziata e fotografa, con cui condivide progetti per «National Geographic»: due sguardi e due approcci che si intrecciano, rafforzando il racconto e moltiplicando la gioia di ogni scoperta. A Villa Bardini a Firenze, la mostra «Oceani» (dal 21 ottobre al 12 aprile 2026), promossa da Fondazione CR Firenze e Gallerie d’Italia-Intesa Sanpaolo, in collaborazione con «National Geographic», raccoglie oltre 80 fotografie che restituiscono il respiro segreto delle profondità marine e il loro dialogo con la superficie. «Prendendo spunto dalla sofisticata tecnica over/under, in cui lo scatto ritrae soggetti perfettamente a fuoco sia sopra che sotto la superficie dell’acqua, e che Doubilet ha reso celebre con immagini memorabili, il percorso della mostra gioca su coppie di opposti: caldo e freddo (warm/cold), chiaro e scuro (bright/dark), vicino e lontano (close/far)… fino a una sala interamente dedicata alla tecnica over/under», spiega Marco Cattaneo, direttore di «National Geographic Italia» e curatore della mostra. Abbiamo incontrato David Doubilet, che ci ha affidato ricordi e aneddoti di un viaggio negli oceani lungo una vita.
La sua avventura è iniziata da bambino, a dodici anni, con una macchina fotografica chiusa in un contenitore improvvisato. Che cosa la spinse allora a voler fotografare sott’acqua? E, guardando oggi quel bambino, che cosa pensa stesse cercando sotto la superficie?
Quando ero a un campo estivo negli Adirondacks (catena montuosa nello stato di New York, Ndr), un istruttore che mi detestava perché non ero bravo negli sport mi mandò sotto il pontile con una maschera a raccogliere rami. Lì vidi pesci, il ragno più grande che avessi mai incontrato, la luce che filtrava attraverso il legno sopra di me e l’acqua sotto: ne rimasi ipnotizzato. Immergermi divenne il mio rifugio, il luogo in cui scoprivo segreti invisibili agli altri. Dopo un po’ volli condividerli. Con mio padre costruimmo una custodia per la macchina fotografica usando una sacca da anestesista e una maschera. Con quell’aggeggio scattai le prime fotografie di pesci: si riconoscevano appena, ma bastò a farmi capire che non avrei più smesso. Poi arrivò un sistema migliore e da allora ogni momento libero lo trascorrevo sott’acqua. Ripensandoci oggi, stavo esplorando un mondo nuovo per me e ancora poco conosciuto. All’epoca, il mare del New Jersey era popolato di creature misteriose: cernie, razze e pesci più grandi di me, che avevo solo dodici anni.
La mostra «Oceani» a Villa Bardini si costruisce attorno a un gioco di opposti ispirato alla tecnica over/under, che mette a fuoco ciò che accade contemporaneamente sopra e sotto la superficie. In queste immagini la linea dell’acqua diventa una soglia: c’è uno di questi opposti che sente più vicino al suo sguardo, e che cosa significa per lei attraversare quella linea ancora e ancora?
Penso alla superficie del mare come al confine più grande e importante del nostro pianeta. Non è politico, non separa i Paesi ma mondi. La superficie, sottile quanto una molecola, è la porta d’accesso al 70% della Terra. Ne sono rimasto affascinato già decenni fa e ho iniziato a realizzare immagini «half and half» che catturavano in un unico fotogramma il mondo conosciuto in superficie e quello nascosto sotto. Sono le mie immagini preferite, che si tratti di una barriera corallina o dei ghiacci polari. Ho imparato ad amare la fotografia degli iceberg e oggi li considero la metafora perfetta del mare: come l’oceano, solo una piccolissima parte di un iceberg è visibile ai nostri occhi.
Nei suoi scatti incontriamo un pesce che sorride come Jack Nicholson in «Joker», un coccodrillo che si trasforma in una cattedrale gotica, una foca che sembra fare surf su un iceberg. Come lavora sott’acqua per trasformare la realtà in visioni così potenti? E quanto conta, in questo processo, il lavoro di squadra delle persone che l’accompagnano nelle spedizioni?
Pensi alla Street photography, a quel momento alla Cartier-Bresson fatto di gesto, intimità e luce che accade sul palcoscenico della vita: una strada, un caffè, un giardino. Ora immagini di immergersi con me sott’acqua e cercare quegli stessi momenti decisivi tra le barriere coralline, nelle mangrovie, nei ghiacci o nelle foreste di kelp. Io cerco intimità, una connessione con una creatura, e cerco il gesto. C’è un’immagine di un cerchio di barracuda che circonda una subacquea: il momento decisivo fu quando la subacquea, Dinah Halstead, allungò dolcemente il braccio verso i barracuda, un gesto semplice che rese l’immagine molto più intima. Mi chiede del lavoro di squadra. Ogni singolo clic dell’otturatore è una collaborazione. Quando i fotografi lavorano in Paesi stranieri si affidano spesso a fixer che conoscono il territorio e li aiutano a orientarsi. Come fotografi subacquei attraversiamo il pianeta e poi scendiamo sott’acqua con una guida che conosce le acque locali e le creature che le abitano: sono loro ad aiutarci a muoverci, a vedere e a imparare. Ancora più importante del team di guide, capitani e tecnici delle immersioni è avere un compagno di vita che condivida l’incarico. Jennifer Hayes, mia moglie e partner in mare, è scienziata e fotografa. Insieme produciamo reportage per «National Geographic», portando ciascuno una visione diversa. Due paia di occhi, due visioni, due approcci e due cuori rafforzano il racconto e moltiplicano la gioia quando accade qualcosa di speciale.

Una fotografia di David Doubilet per «National Geographic»
Le sue immagini non si fermano al gioco della visione: oscillano continuamente tra estremo realismo e forza del surreale. In un’epoca segnata dall’Intelligenza Artificiale, come insegnare agli spettatori a distinguere la verità delle sue fotografie dalle immagini generate artificialmente?
Una vita trascorsa sott’acqua mi ha insegnato questo: il bizzarro è una costante e il surreale è una certezza. Ho avuto l’onore di lavorare con «National Geographic» per oltre cinquant’anni. È stata ed è tuttora una delle riviste più affidabili al mondo perché i fotografi catturano le immagini in formato raw (un negativo, se vogliamo), che non è altro che la verità di ciò che la macchina fotografica ha registrato. L’Intelligenza Artificiale troverà il suo posto, ma temo che, nell’ambito delle immagini, possa erodere la verità.
Dopo decenni trascorsi a raccontare le meraviglie del mare, oggi si trova anche a documentarne le ferite: plastica, cambiamenti climatici, tracce lasciate dall’uomo. Le sue immagini conservano ciò che rischiamo di perdere. Crede che la fotografia possa trasformare il mare in un luogo non solo di testimonianza ma anche di cura?
Ho la fortuna di avere la prospettiva del tempo in mare. Più di mezzo secolo. Quando ho iniziato pensavamo che il mare fosse infinito, ma è finito e fragile. Le mie fotografie testimoniano, attraverso la lente del tempo, ciò che il mare era e ciò che è ora. Gli squali sono diventati incontri rari, fantasmi nel mare. Le barriere coralline, dopo ripetuti episodi di sbiancamento, sono diventate cimiteri vuoti e in rovina. La pesca eccessiva ha svuotato gli oceani. Uso il mio archivio fotografico per tornare nei luoghi che ho documentato tempo fa e osservare quegli angoli dell’oceano attraverso la lente del tempo. La verità può essere devastante, ma esistono scienza e conservazione che funzionano. C’è più della speranza: ci sono aree in cui resilienza e recupero stanno avvenendo. Esempi straordinari sono il Tubbataha Reefs Natural Park nelle Filippine e Raja Ampat in Indonesia, entrambi nel cuore del Triangolo dei Coralli. Un nuovo programma di conservazione degli squali, chiamato ReShark, è semplice: rimettere gli squali in mare, e funziona. Gli squali zebra negli acquari producono uova che vengono portate in nursery in Indonesia, dove si schiudono e vengono rilasciati in aree protette. Una lunga lista di specie di squali e razze seguirà. Fotografare il rilascio dei giovani squali zebra è stato inaspettatamente emozionante. Finalmente liberavamo squali verso il loro futuro, invece di vederli scomparire.
Oggi viviamo tempi bui, segnati da guerre e disastri ambientali. Nel suo lavoro, invece, si ritrova spesso un senso di pace quasi irreale nel mondo oceanico. È anche questo il compito della fotografia: offrire un rifugio nella tempesta del presente?
Il mare è stato ed è per me un rifugio personale. Come giornalisti dobbiamo raccontare le verità dure di ciò che accade, ma cerco di bilanciarle con le vittorie della conservazione e con la magia e la bellezza che ancora resistono. Restare accanto all’acqua, guardarla e ascoltarla è calmante, forse perché siamo fatti «d’acqua». Immergersi permette di evadere per qualche istante in un mondo diverso dal nostro, non privo di problemi ma colmo di una bellezza senza pari. Ma è bene ricordarlo: non è un mondo da sfruttare, è un mondo da proteggere. Come vanno gli oceani, così andiamo anche noi.
Chi è David Doubilet oggi? Come si definirebbe dopo una vita passata a guardare il mare dall’interno? E su quali progetti futuri sta lavorando?
Dopo una vita nel mare, ogni immersione per me è ancora una scoperta. Sono ispirato a usare nuove tecnologie (comandi a distanza, endoscopi, sistemi di illuminazione) per catturare comportamenti prima irraggiungibili fotograficamente. Voglio documentare luoghi che hanno per me un significato particolare, condividere ciò che ho imparato e sostenere i nuovi narratori e la prossima generazione di esploratori degli oceani, perché vadano oltre quello che ho fatto nella mia carriera. Voglio conoscere di più, vedere di più, fotografare di più, condividere di più e connettere le persone con il mare. Nel prossimo anno tornerò a concentrare l’obiettivo su Raja Ampat, in Indonesia. Questo angolo del Triangolo dei Coralli è il cuore pulsante della biodiversità marina del pianeta. Jennifer e io abbiamo iniziato a lavorare lì nel 2000, quando non esisteva ancora una sola area marina protetta. Il progetto, in collaborazione con «National Geographic Magazine» e Rolex, è dedicato a mostrare come una rete di aree protette stia oggi salvaguardando le barriere coralline più ricche del mondo.

Una fotografia di David Doubilet per «National Geographic»