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© Eredi di Luigi Ghirri

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© Eredi di Luigi Ghirri

A Prato quattro anni di Polaroid di Luigi Ghirri

Il Centro Luigi Pecci ospita una visione inconsueta dell’artista italiano: il rapporto con l’aleatorietà della fotografia istantanea tra anni Settanta e Ottanta

Laura Lombardi

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A un fotografo di grande fama come Luigi Ghirri, ma esaminato in un aspetto meno noto della sua produzione, è dedicata la mostra al Centro Luigi Pecci «Luigi Ghirri. Polaroid ’79-’83» (dal 22 novembre al 10 maggio 2026) a cura di Chiara Agradi e Stefano Collicelli Cagol, che, come evoca il titolo, si concentra unicamente (ed è la prima mostra a farlo) sull’incontro dell’artista con l’azienda americana e sul ruolo che la macchina Polaroid riveste nel suo lavoro, in opere di piccolo e di grande (quindi più raro) formato. Un incontro che non muta certo la postura analitica dell’artista, ma che gli permette, dopo gli anni Settanta, il decennio di rigore concettuale, di misurarsi con l’aleatorietà della fotografia istantanea. E quel confronto ne orienta, per necessità tecniche come vedremo, anche lo sguardo verso altri temi, diversi dagli iconici paesaggi dell’Emilia Romagna, ovvero gli oggetti, gli interni domestici

«Mentre è in corso la mostra “Vivono. Arte e affetti: HIV e AIDS in Italia”, riferita proprio agli anni Ottanta, spiega Stefano Collicelli Cagol, direttore del Centro Pecci, volevo che ci fosse una mostra che risuonasse con quel periodo storico, seppure in un’altra prospettiva. Mi interessava inoltre, rivolgendosi a un pubblico più giovane, abituato al digitale, riflettere su uno strumento analogico come la Polaroid che per primo offrì la possibilità di una traduzione immediata delle foto scattate, come oggi siamo abituati a fare coi nostri smartphone. Eppure anche nelle Polaroid, Ghirri riesce a tradurre le diverse temporalità in gioco, le stratificazioni della memoria presenti nei suoi paesaggi malinconici. Ed il display della mostra, progettato da Ibrahim Kombarji, pone in modo attento le opere in relazione con lo spazio dell’ala Nio, offrendo di alcune anche una visione double face, recto-verso». 

La mostra si avvale degli studi dottorali di Chiara Agradi (curatrice alla Fondation Cartier pour l’art contemporain di Parigi) incentrati proprio sul rapporto tra fotografi, artisti e l’azienda Polaroid dagli anni Settanta agli anni Duemila (è infatti dal 2024 membro del comitato curatoriale della Polaroid Foundation). «Polaroid esprime a partire dagli anni Sessanta la precisa volontà di imporsi come attore forte nel campo della fotografia e dell’arte contemporanea e svolge attività volte a fidelizzare gli artisti», spiega Agradi. Una sorta di mecenatismo insomma, ma che conta sul ritorno di immagine offerto da chi sceglie di affidarsi a quel medium: tra gli americani basti ricordare, tra gli altri, Chuck Close e Andy Warhol. «In quella che fu la grande collezione aziendale di Polaroid, si trovavano, tra gli italiani, anche Gabriele Basilico, Nino Migliori, Franco Fontana, fotografi che Polaroid contattava di sua iniziativa. Ed è Manfred Heiting, direttore del design della divisione internazionale di Polaroid, ad approcciare Ghirri nel 1979 ai Rencontres de la photographie di Arles e proprio da quell’anno l’artista sperimenta il piccolo formato»

Soddisfatto, Ghirri nel 1980 si reca quindi ad Amsterdam, dove Polaroid, che lì ha una sede, lo ha invitato. Qui avviene l’incontro col grande formato. «Polaroid aveva prodotto già nel 1976 cinque Polaroid Instant Land Camera, un fiore all’occhiello nel panorama tecnologico dell’epoca, macchine imponenti, molto difficili da trasportare in grado di realizzare Polaroid grandi 50x60 cm. Per questo Ghirri deve spostarsi in Olanda, e lo fa accompagnato da Olivo Barbieri, portandosi dietro valigie colme di oggetti, sapendo di dover lavorare nell’interno di uno studio. Questa scelta ‘forzata’ mette in luce due aspetti essenziali del suo lavoro: il rapporto di Ghirri con gli oggetti e il ruolo di catalizzatori di un racconto autobiografico che essi rivestono, e la riflessione sulle qualità materiali della fotografia stessa, che dall’impiego di Polaroid inevitabilmente scaturisce. Grazie a Polaroid, infatti, Ghirri interroga la natura e le contraddizioni del mezzo fotografico, sovrapponendo immagini diverse all’interno della stessa fotografia, mettendo in discussione i limiti tra reale e rappresentazione, e relazionando l’oggetto fotografato alla polaroid come oggetto fotografico».

Luigi Ghirri, «Amsterdam», 1981. © Eredi di Luigi Ghirri

Luigi Ghirri, «Modena», 1980. © Eredi Luigi Ghirri

Laura Lombardi, 15 novembre 2025 | © Riproduzione riservata

A Prato quattro anni di Polaroid di Luigi Ghirri | Laura Lombardi

A Prato quattro anni di Polaroid di Luigi Ghirri | Laura Lombardi