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Camilla Bertoni
Leggi i suoi articoliSette anni di preparazione per una mostra che racconti un Lucio Fontana attraverso opere storiche importanti, alcune delle quali raramente esposte al pubblico e altre inedite. E se qualcuno pensava che sull’artista fosse ormai stato detto tutto, si troverà davanti un Fontana tutto da scoprire, dove ancora molte questioni rimarranno aperte. La mostra, prevista dall’11 ottobre al 2 marzo 2026 alla Collezione Peggy Guggenheim di Venezia, è «Mani-Fattura: le ceramiche di Lucio Fontana», ed è dalla curatrice Sharon Hecker che ci facciamo accompagnare in una visita in anteprima di questa esposizione: «È la prima personale mai realizzata in ambito museale a essere esclusivamente dedicata all’intero percorso delle opere in ceramica di Lucio Fontana, spiega la storica dell’arte di origine californiana, milanese di adozione da più di trent’anni. Questa mostra pone l’accento su una parte meno nota ma essenziale della sua produzione. Perché non bisogna dimenticare che, mentre i tagli, per cui è universalmente noto, appartengono a un periodo dell’età matura di Fontana, alla ceramica l’artista si è dedicato per tutto l’arco della sua carriera, a dimostrazione dell’importanza che per lui aveva questo materiale».
C’è ancora da scoprire qualcosa su Lucio Fontana?
La prima a dubitarne sono stata io mentre iniziavo la ricerca che ha condotto a questa mostra, ma posso affermare con assoluta certezza che sì, c’è molto da scoprire ancora.
Per esempio?
Tutta la mostra risponde alla domanda: che cosa voleva dire per Fontana mettere le mani nella creta? Era molto diverso affondarvi le mani o bucarla piuttosto che tagliare la tela, un gesto essenzialmente più violento, del quale era più facile prevedere il risultato. Molto più delicato il gesto e imprevedibile l’esito, dopo il passaggio nel forno, sulla ceramica. Le «Nature», per esempio, sono il prodotto di un gesto primordiale nella lavorazione della creta, il dito che entra nella palla di terra. Alcuni le considerano opere concettuali, io le vedo come materiche, originarie. Non a caso le ho collocate alla fine, in un percorso idealmente circolare che torna su sé stesso. Per l’artista la ceramica rappresentava un modo di fare profondo. La mostra vuole far scoprire un lato meno conosciuto di Fontana gettato in una nuova luce, aprire domande, non offrire una nuova storia già impacchettata.
Come si svolge il percorso espositivo, attraverso quali e quante opere?
Ci sono una settantina di opere storiche, in un percorso che è insieme cronologico, tematico, materico, a partire dalla prima, realizzata quando era appena tornato in Argentina, il Paese dove era nato nel 1899 e dal quale era stato portato via bambino, allontanato dalla madre a soli sei anni. E in Italia subirà da adolescente l’esperienza traumatica della Prima guerra mondiale, durante la quale fu ferito, per poi fare ritorno in Argentina. Esperienze che sicuramente contano nella sua espressione artistica: non ha mai fatto riferimento alla vicenda con la madre, e non ci siamo addentrati, mentre, soprattutto durante i soggiorni in Argentina, ha raccontato più volte il segno che la guerra in Italia gli ha lasciato per tutta la vita. Un fatto che, a suo dire, è legato alla decisione di iniziare a modellare. In mostra si parlerà di questo legame, mai approfondito prima.

Lucio Fontana, «Battaglia», 1947, Karsten Greve, St. Moritz. © Fondazione Lucio Fontana, Milano, by Siae 2025.
Come si sviluppa poi la sua formazione in Italia?
Alla scuola di Adolfo Wildt, in epoca fascista. La scoperta della tradizione della ceramica ad Albissola, con Tullio d’Albissola e tutte le persone che finiranno per rappresentare una vera e propria famiglia per lui, coincide con il ritrovamento di un mondo intimo e pacificante, carico di importanti relazioni umane. La mostra racconta la scoperta dei materiali, degli smalti. Si incontra un Fontana grande sperimentatore, ma in grado di rispettare il rito secolare della ceramica che richiede conoscenza e pazienza. Una delle «chicche» della mostra è un film, girato da un regista argentino proprio per quest’occasione: una camminata per Milano alla ricerca delle sue opere.
Qual è il rapporto dell’artista con il regime?
È un’altra delle domande che la mostra lascia aperte, non c’è una risposta chiara: di certo c’è che allo scoppio della Seconda guerra mondiale Fontana se ne torna in Argentina, rifuggendo questo nuovo conflitto a cui il fascismo invece aderisce. Tornerà dopo, lavorando alla ricostruzione, come racconta anche il film: un altro degli aspetti importanti è rappresentato dalle sue collaborazioni con architetti e designer, alla produzione di oggetti che andranno nelle case dei milanesi.
Quali sono i capolavori imperdibili della mostra?
Difficile dirlo: c’è una «Battaglia» incredibile, sembra un corallo, ma si rivela da vicino come intreccio di uomini in lotta. Si va dal piccolissimo all’enorme, perché Fontana spaziava tra misure e forme. Una «Medusa» proveniente dalla collezione Carlon, che fu esposta alla Quadriennale del 1939, racconta il suo fascino per la mitologia. Ho voluto un ritratto della moglie in questo percorso segnato da un senso di intimità: si parla dei tagli come di riferimenti sessuali, ma c’è una stratificazione più complessa, una percezione del femminile molto articolata che si coglie anche nelle relazioni intellettuali che aveva con le donne. Diverse foto fanno vedere l’artista al lavoro lasciando capire molte cose sulla tecnica, sulla relazione con un materiale considerato a lungo minore, ma che oggi è tornato all’interesse degli artisti. Del resto, è significativo che abbiamo tutte queste immagini legate alla lavorazione della creta, ma che non abbiamo invece fotografie di Fontana in fonderia o nelle fornaci del vetro, a dimostrazione ancora una volta della relazione particolare che aveva con la creta. Affrontiamo anche il tema della vulnerabilità del materiale e quello della capacità dell’artista di affacciarsi al mondo con produzioni che si adattavano alle culture dei Paesi dove ha esposto, dagli Stati Uniti al Giappone. Il risultato è un corpo proteiforme di opere, caratterizzate da abbondanza, versatilità e varietà che resiste a facili definizioni o categorizzazioni. Spero che i visitatori ne resteranno sorpresi e incantati.

Lucio Fontana al lavoro, Albisola, primi anni Cinquanta. © Fondazione Lucio Fontana, Milano, by Siae 2025