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Rischa Paterlini
Leggi i suoi articoliA Verona, Studio la Città ospita fino al 30 maggio la mostra «Attenzione! quell’Arte che Viene che Va dalla fotografia», a cura di Giacinto Di Pietrantonio. Il progetto invita a rallentare, a guardare con consapevolezza, a interrogarsi sullo statuto delle immagini nella contemporaneità. Come ricorda il curatore: «Fino a un certo punto la fotografia era qualcosa di privato. Prima del 2007, prima dell’iPhone, si faceva in famiglia, tra amici, si stampava e si metteva negli album. Poi, con gli smartphone e i social, è diventata pubblica, condivisa, diffusa. Oggi non è più solo una questione tecnica: è un ambiente che abitiamo ogni giorno». È in questa trasformazione radicale del visivo che si innesta il senso della mostra.
«Attenzione!» non espone fotografie in senso classico, ma opere che si relazionano con la fotografia in modo critico, laterale, spesso non immediato. Pittura, disegno, scultura, collage e installazione si intrecciano in pratiche che elaborano il visivo come territorio condiviso, instabile, saturo. Nel lavoro del duo Vedovamazzei-Simeone Crispino (Napoli, 1962) e Stella Scala (Napoli, 1964), la fotografia è punto di partenza di un processo di trasmissione collettiva: immagini d’arte riprodotte in cataloghi vengono ridisegnate da bambini e poi riportate su tela o scultura dagli artisti. L’immagine non è più copia, ma esperienza condivisa e trasformata.

Giuseppe Stampone, «Europa versus Europa», 2017

Vedovamazzei, «Early Work (Betty from Richter)», 2022
Giuseppe Stampone (Cluses, Francia 1974) lavora con la penna Bic, riproducendo immagini molto spesso tratte dal web o dalla stampa. Loredana Di Lillo (Gioia del Colle, Bari 1978) parte dalle immagini mediatiche, in particolare quelle di guerra. Le sue «Life in War Color Palette» traducono i toni visivi delle prime pagine dei giornali in geometrie astratte: grigi, verdi militari, neri, poi rosa, blu, gialli. Con Nando Crippa (Merate, 1974) l’immagine si dissolve in forma. Le sue piccole sculture in terracotta ispirate a fotografie di riviste, pubblicità o film, sono isolate, silenziose, sospese e, spogliate dal contesto originario, assumono quasi un’aura metafisica. Gli acquerelli di Marco Palmieri (Napoli, 1969) sembrano immagini fotografiche ma sono interamente realizzati a mano, o forse no. «Cerco con l’azione di riprendere ,con tutta la complessità del mezzo fotografico, una realtà che è di per sé vera ma che io costruisco con i materiali dell’arte», afferma. I suoi lavori innescano un corto circuito tra rappresentazione e illusione, verità e artificio.
In questa mostra, la fotografia non è mai fine a sé stessa, ma strumento critico, memoria riattivata, filtro percettivo. Non viene trattata come genere, ma come orizzonte del visibile, da attraversare, smontare, riformulare. Come conclude il curatore: «Non mi interessava mostrare artisti in cui è subito evidente il rapporto con la fotografia. Mi interessavano piuttosto quelli in cui questo rapporto esiste, ma non si percepisce immediatamente. Devi fare attenzione. È un legame che agisce in modo carsico: passa sotto, riemerge altrove». Ed è proprio in questa tensione tra visibile e invisibile che si gioca il senso della mostra: imparare a vedere dove pensiamo di avere già visto.

Loredana Di Lillo, «Civilian volunteers gathering empty bottles in the city of Dnipro, Ukraine, on Sunday, to be used for Molotov cocktails», 2023

Marco Palmieri, «Horizon V», 2019