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Marina Wallace
Leggi i suoi articoliIn attesa della prima edizione di ARTis, la grande festa dedicata all’arte e agli artisti, che si svolgerà a Vicenza dal 10 al 16 novembre, vi proponiamo un ciclo di interviste dedicate al tema della prima edizione: «Non c’è arte senza artista». La parola a Giovanni Morbin.
ARTis intende definire l’arte prima di tutto come professione, attraverso l’artista: come definisci tu l’arte a livello professionale?
L’arte è una disciplina senza Albo, è forse qualcosa che senti di voler fare perché non puoi farne a meno. È solo in un secondo momento che si presentano gli aspetti professionali, l’appartenenza ad una categoria e i codici comportamentali in ingresso e in uscita dai vari ambiti del sistema dell’arte. A mio parere, l’artista è tale nel suo ambiente, nello spazio che legittima ed afferma la sua utopia. Quando esce da lì combatte per affermare una minima parte di ciò che prima aveva ipotizzato.
A livello professionale: cosa ti aiuta o ti ha aiutato di più nella tua produzione artistica?
Nessuno mi ha mai insegnato una professione e nelle scuole frequentate questo argomento non veniva mai affrontato. Esisteva solo la necessità di trovare un linguaggio personale e che rispondesse alle urgenze contemporanee. Ma, dovendo rispondere a questa domanda e rischiando di apparire strano, sento di poter affermare che l’aiuto maggiore mi è giunto dallo stridere della mia preparazione iniziale tecnico scientifica e l’incontro con gli orizzonti artistici. Sono sempre stato «allenato» a mettere in primo piano l’idea e ad attendere che quest’ultima chiamasse a raccolta i materiali e le tecniche più idonee ad esprimerla.
ARTis, Festival dell’Arte, offre la possibilità di dialogare di arte, coinvolgendo il pubblico generale e gli addetti ai lavori senza costrizioni commerciali. Quali sono i vantaggi di un esperienza del genere?
Credo che prima di tutto possa riportare le cose sulla terra senza per questo peccare di eccessiva semplificazione. Può essere, e spero che lo sarà, un’opportunità per condividere la complessità dell’arte e portarla fuori dal luogo comune che la vede protagonista accessoria. Nella maggior parte dei casi gli artisti diventano credibili solo a cose fatte, ma fino a quel momento devono camminare da soli e senza un sistema a cui fare riferimento, come se non avessero «né arte né parte».
A Leonardo Da Vinci è attribuita l’affermazione: «L’Arte non è mai finita. Solo abbandonata». Cosa ne pensi?
Penso che tutto ciò conduca ad una devozione che non risponde solamente agli aspetti tecnici cari alla maggior parte delle persone e pone al centro del problema il linguaggio. Quest’ultimo determina e qualifica la posizione nel contemporaneo. Se poi volessimo guardare la cosa sotto l’aspetto squisitamente pratico, potremo tranquillamente affermare che operiamo ineluttabilmente una condizione di ritardo e l’attuazione dell’idea ne è l’espressione più evidente.
Il contesto dell’arte contemporanea è ben diverso da quello dell’arte del passato. Secondo te quali sono i momenti fondamentali che hanno segnato il passaggio dal passato al contemporaneo attraverso il moderno?
Credo che la scia delle avanguardie storiche abbia attraversato le neo avanguardie e sia giunta a noi mettendo a fuoco un’attitudine estesa, più di quanto si possa pensare, che possiamo identificare come intermedia (vedi Dick Higgins, Intermedia e altri scritti teorici, a cura di Patrizio Peterlini, Abscondita, 2024). Le giovani generazioni passano disinvoltamente da una tecnica all’altra, da un’attitudine all’altra, tradendo con naturalezza la specializzazione che si impone nelle accademie. A seconda delle situazioni, si confrontano con la pittura così come in altre si esprimono con il digitale o la performance e lo fanno con naturalezza, lucidità e convinzione.
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