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Jenny Dogliani
Leggi i suoi articoliSi è spento a 91 anni il fotografo napoletano Mimmo Jodice, tra i protagonisti assoluti della fotografia italiana del secondo Novecento. Nato nel 1934 nel Rione Sanità, autodidatta, si avvicina all’arte attraverso il disegno e la pittura, ma trova nella fotografia il mezzo più congeniale per esprimere un pensiero visivo autonomo, libero dalle convenzioni documentarie. Prima di diventare il grande interprete del paesaggio metafisico e dell’archeologia mediterranea, Jodice ha rivolto l’obiettivo verso la Napoli viva e popolare. Nei vicoli, tra i cortili e le piazze, ritrae ragazzi, anziani, donne, devoti: una folla minuta e dignitosa, mai spettacolarizzata. Serie come Chi è devoto (1970) e le prime Vedute di Napoli testimoniano questo sguardo partecipe. Non c’è retorica né denuncia: c’è l’attenzione al volto umano, al gesto, alla luce che rivela la verità delle persone. La città non è sfondo ma corpo vivo; ogni figura, ogni muro, ogni finestra racconta un tempo condiviso. A differenza dei fotoreporter sociali dell’epoca, Jodice non cerca l’evento, ma la presenza silenziosa, la tensione spirituale che abita la quotidianità. È in questi anni che il suo bianco e nero acquista quella densità drammatica e pittorica che diventerà cifra stilistica costante.
© Mimmo Jodice
«La realtà prende forma negli occhi di chi la guarda», scriveva Schopenhauer, e la profondità di questo pensiero sembra attraversare tutta la sua opera. Per Jodice, la fotografia non è mai mera descrizione, ma una forma di conoscenza, il tentativo di dare immagine a ciò che sfugge. «Non ho mai pensato che la fotografia fosse solo documento, ma un mezzo, uno strumento per esprimersi», aveva affermato. Già negli scatti immersi nel difficile contesto urbano della Napoli degli anni Sessanta, quando la fotografia stentava a farsi riconoscere come espressione artistica e i reportage risentivano delle tensioni sociali del tempo, Jodice filtrava il reale con una visione interiore capace di cogliere l’universalità della condizione umana.
Parallelamente, si muoveva nel cuore delle avanguardie italiane. Dalla fine degli anni Sessanta collabora con gallerie e artisti legati all’Arte povera e al Concettuale, fotografando azioni e installazioni di Joseph Beuys, Andy Warhol, Vito Acconci, Jannis Kounellis, Sol LeWitt. Non si limita a documentare: traduce in immagini l’energia sperimentale di quegli anni, diventando testimone e interprete del dialogo fra fotografia e arti visive. Nel 1970 inizia a insegnare Fotografia all’Accademia di Belle Arti di Napoli, dove fonda uno dei primi laboratori dedicati alla ricerca fotografica in Italia, formando una nuova generazione di artisti.
Erano anche anni di grande sperimentazione tecnica, che Jodice elaborava inventando soluzioni inedite in camera oscura: privava le immagini dei mezzi toni per renderle più simili alla grafica, oppure ne capovolgeva i contrasti, mettendo in scena il procedimento stesso della fotografia, come è solito fare il pittore o il disegnatore. La sua arte procede per idee, per temi declinati in progetti, non nasce mai da improvvisazioni del momento. Anche nelle prime immagini, quando il periodo imponeva una maggiore attenzione alle tematiche sociali, Jodice resta distante dalla cronaca, dal racconto e dalla documentazione di episodi specifici, narrando piuttosto il malessere e la sofferenza, approdando a una dimensione più astratta e silenziosa del reale.
© Mimmo Jodice
© Mimmo Jodice
A partire dagli anni Ottanta, le figure umane scompaiono progressivamente. Restano i luoghi, i paesaggi, le rovine. Nelle serie Vedute di Napoli, Anamnesi, Il Mediterraneo ed Eden esplora l’idea di tempo sospeso: statue, mari, pietre e cieli diventano metafore di una civiltà in bilico tra memoria e oblio. Jodice fotografa la luce come se fosse materia antica, l’acqua come memoria del mondo. «L’archeologia è una forma di contemporaneità», amava dire: nei frammenti del passato ritrovava un presente eterno.
Il suo linguaggio si fa via via più essenziale, vicino alla meditazione. Al di là dei raffinati risultati estetici, il bianco e nero è per lui uno strumento per allontanarsi dalla realtà e immergersi nelle sue trame più profonde. Un approccio declinato nei ritratti, nei paesaggi, nei panni stesi, nelle macchine coperte da un telo, nei nudi di spalle, nella perfezione di antiche statue che restituiscono il senso di una bellezza classica e senza tempo. Negli elementi delle tradizioni religiose partenopee e nei rimandi all’antica mitologia mediterranea, la civiltà si apre a una dimensione metafisica e trascendente. «Quando fotografi devi fermare il tempo, prima che lui se ne accorga e si vendichi», spiegava.
Nel 2023 le Gallerie d’Italia – Torino gli avevano dedicato la grande retrospettiva «Mimmo Jodice. Senza Tempo», secondo appuntamento del ciclo sui maestri della fotografia italiana curato da Roberto Koch. Il percorso includeva ottanta fotografie scattate tra il 1964 e il 2011, disposte in sei sezioni: Anamnesi, Linguaggi, Vedute di Napoli, Città, Natura, Mari. «Dalle foto che immortalano statue e mosaici, vestigia delle antiche civiltà del Mediterraneo, a un interesse sperimentale e concettuale per il linguaggio fotografico; dalle vedute urbane di Napoli e di altre metropoli, cariche di assenza e silenzio, alle trasfigurazioni del paesaggio naturale fino alla struggente malinconia dei suoi mari. La sezione “Natura”, con opere esposte per la prima volta, aggiunge un ulteriore capitolo alla sua ricerca», spiegavano dal museo. Negli anni la presenza umana scompare del tutto per lasciare spazio alla superficie dell’acqua, ai frammenti di volti e corpi di pietra in primissimo piano che sembrano balzare fuori dalla cornice. Non sono mai reperti: sono entità vive, cui un lieve effetto sfocato imprime un’idea di movimento. Le ombre che si stagliano alle loro spalle sono l’eco della memoria, di un tempo trascorso, di un mondo di cui non restano che fantasmi sospesi tra sogno e realtà. In alcuni scatti dominano gli elementi naturali: rocce imponenti, restituite dall’elegante contrasto del bianco e del nero, che sembrano emergere dalle viscere della terra, prendere forma davanti ai nostri occhi. Il mare, anche se calmo, non è mai quieto: è un velo che nasconde profondi e tumultuosi abissi. Gli alberi intrecciati, i boschi, i giardini, raffigurati nei loro elementi essenziali, sono l’espressione di una malinconica tensione e trasfigurazione, di una sofferenza della materia che, come l’uomo, lotta per contrastare l’incedere del tempo. Il paesaggio evoca sempre qualcosa che lo trascende: la civiltà, la natura, le leggi della creazione, tutto ciò che all’uomo non è dato comprendere.
© Mimmo Jodice 1972
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