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Papa Francesco nella Basilica Papale di Santa Maria Maggiore

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Papa Francesco nella Basilica Papale di Santa Maria Maggiore

Addio a Papa Francesco • Il rapporto complesso, controverso e appassionato con l’arte

Anche i poveri hanno bisogno di arte e ora che Bergoglio non c’è più siamo tutti più poveri

Papa Francesco non è mai stato un papa per grandi cattedrali, per cerimonie trionfali, per musiche inneggianti alla gloria della chiesa. Forse non stava già bene, ma comunque non ha voluto andare (e non è un caso) l’8 dicembre dell’anno scorso alla solenne inaugurazione della restaurata Notre Dame di Parigi fra capi di stato e preti vestiti con abiti liturgici ideati da Jean-Charles de Castelbajac che conferivano alla cerimonia lo stile di una sfilata di moda con quel tocco francese che non dovrebbe guastare ma che spesso guasta tutto. No, non era cosa per lui. 

Jorge Mario Bergoglio veniva dall’Argentina, terra di immigrazione, con genitori che arrivavano dal Piemonte delle campagne astigiane, allora molto povere. Meglio quindi le accoglienti chiesuole barocche di mattoni che si crogiolano al sole sulle colline del Monferrato con la loro pudica bellezza che le grandi cattedrali. E poi nell’Argentina dei Barrios o dei miseri fra i miseri delle sterminate periferie di Buenos Aires come ci entrava l’arte con tutto il suo scintillante e lussuoso corteo di splendore? Lì le chiese sono spesso capannoni, spogli, con qualche statuetta sbilenca di gesso, dove anche Dio deve avere poche esigenze per sopravvivere. Ci sono posti nel mondo che non conoscono la bellezza, ma nemmeno la serena pacatezza di una modesta ornamentazione, posti dove tutto è brutto e cattivo e tutto sembra senza speranza. Quelli erano i posti che più interessavano a Francesco. Eppure, lui è stato il primo gesuita a diventare papa e il primo pontefice proveniente dal continente americano e i gesuiti, eredi di una grande storia, hanno lasciato nel mondo una scia di arte di suprema bellezza che ha pochi paragoni.

In realtà a Bergoglio l’arte piaceva e interessava, e anche molto, e durante il suo pontificato, e anche prima, lo ha sempre dimostrato. Quando nel 1986 fu in Germania per un periodo (piuttosto infruttuoso) di studi a Francoforte venne a conoscenza dell’esistenza di una immagine votiva che raffigura «Maria che scioglie i nodi»: ne fece una immagine di culto che poi contribuirà a diffondere in Argentina. Il dipinto, realizzato intorno al 1700 dal poco conosciuto pittore tedesco Johann Georg Melchior Schmidtner e conservato ad Augusta, in realtà è alquanto bruttarello, ma è perfettamente funzionale sul piano devozionale e si è guadagnato spazi di preghiera in tutta Europa, tanto che a Napoli, nella chiesa della Pietà dei Turchini dove «Maria che scioglie i nodi» è particolarmente venerata, dà luogo ormai da molti anni all’annuale rito dell’Incendio dei Nodi (ecco come nascono i nuovi riti e le nuove iconografie). Il papa è anche molto devoto alla celeberrima Vergine «Salus populi romani», la cui icona è custodita nella cappella Paolina della Basilica di santa Maria Maggiore. A questa maestosa immagine ha portato spesso mazzolini di fiori con la timidezza e la grazia di un innamorato e, sotto il suo sguardo e il suo presidio, ha deciso che sarà la sua tomba e non in Vaticano.  

Nel 2015, due anni dopo la sua elezione, il papa scrisse un libro intitolato La mia idea di arte (Mondadori, Milano), in cui per la prima volta parlava diffusamente di questo tema ricordando che «L’arte, oltre a essere un testimone credibile della bellezza del creato, è anche uno strumento di evangelizzazione. Guardiamo la Cappella Sistina: cosa ha fatto Michelangelo? Un lavoro di evangelizzazione». Il papa riteneva che i musei dovessero essere accoglienti luoghi dove ospitare le nuove forme di arte, in grado di spalancare le porte alle persone di tutto il mondo. Affermava che devono «essere uno strumento di dialogo tra le culture e le religioni, uno strumento di pace. Essere vivi! Non polverose raccolte del passato solo per gli eletti e i sapienti, ma una realtà vitale che sappia custodire quel passato per raccontarlo agli uomini di oggi, a cominciare dai più umili». Sempre secondo lui, l’artista deve «contrastare la cultura dello scarto ed evangelizzare». 

Una fotografia di papa Francesco mentre sta ammirando l’icona «Salus populi romani»

Una veduta della cappella Paolina della Basilica di santa Maria Maggiore

Uno degli artisti che il papa ha più stimato è infatti l’argentino contemporaneo Alejandro Marmo che si è ritrovato caricato con l’ingombrante soprannome di «Michelangelo del papa». Un artista che lavora con materiali di scarto e persone emarginate: «Questa società ha preso l’abitudine, dopo l’usa e getta delle cose, di usare e scartare anche le persone, così come butta via le loro illusioni e i loro sogni… Niente è perduto, niente è scartato, tutto ha un senso all’interno della magnifica opera di Dio. La misericordia di Dio non scarta». E così le opere di Marmo sono finite nei giardini Vaticani, all’università di Teramo, all’aeroporto di Fiumicino, solo per citare qualche locazione. Marmo è artista interessante ma non indimenticabile, le sue opere oscillano fra pop-soft e sperimentazioni già molto viste ma che in Argentina forse possono ancora colpire, soprattutto se sistemate in aree periferiche dove di arte non è mai arrivato nulla. Si deve tuttavia osservare che Marmo ha altre frecce al suo arco e ha altri valori: bontà, generosità, grande empatia, come ha dimostrato con il progetto realizzato in Giappone degli «Abbracci che guariscono» dove ha  ha messo insieme anziani e orfani. Ogni anziano ha preso con sé un bambino rimasto orfano, e insieme hanno realizzato il disegno dell’abbraccio, che è il simbolo dell’arte di Alejandro. «Un anziano e un bambino vicini, l’abbraccio che guarisce, la tenerezza che guarisce dalla solitudine: è una cosa bella. È una forma nuova di dare speranza agli anziani attraverso l'arte, un nuovo linguaggio artistico». L’opera di Alejandro ha acquisito così altri valori oltre a quelli artistici, valori che nell’ottica del papa sono più importanti e hanno anche grande rilevanza sociale: «Mi piace l'idea di un’evangelizzazione fatta con gli operai e i poveri, quei poveri che Alejandro fa lavorare sul ferro scartato per lasciare la testimonianza di Cristo crocifisso nelle strade e rendere visibili gli invisibili». E noi chi siamo per giudicare un’arte così orientata? E men che mai per sorridere di queste idee.

Alejandro Marmo, «L’Abbraccio», Campus Aurelio Saliceti dell’Università di Teramo

Indubbiamente, da sempre la Chiesa ha usato l’arte per comunicare, pregare, elevare e evangelizzare. La maggior parte della gente non sapeva leggere e le opere d’arte offrivano quella Biblia pauperum che permetteva a tutti di partecipare agli eventi sacri. In sostanza per papa Francesco l’arte tutta è strumento per incontrare Dio attraverso la bellezza. Oltretutto «l'arte ha in sé una dimensione salvifica e deve aprirsi a tutto e a tutti, e a ciascuno offrire consolazione e speranza. Per questo motivo la Chiesa deve promuovere l'uso dell'arte nella sua opera di evangelizzazione, guardando al passato ma anche alle tante forme espressive attuali. Non dobbiamo avere paura di trovare e utilizzare nuovi simboli, nuove forme d’arte, nuovi linguaggi, anche quelli che sembrano poco interessanti a chi evangelizza o ai curatori ma che sono invece importanti per le persone, perché sanno parlare alle persone».

A questo proposito si deve ricordare che il papa, non troppo tempo fa, aprì ad alcuni senzatetto di Roma i Musei Vaticani permettendo loro di ammirare in tutta tranquillità la Cappella Sistina. Un gesto commovente. Il papa ha dichiarato a proposito che «i Musei Vaticani sono la casa di tutti, le loro porte sono sempre aperte a tutti. Essi testimoniano le aspirazioni artistiche e spirituali dell'umanità e la ricerca di quella bellezza suprema che trova il suo compimento in Dio. E i poveri sono al centro del Vangelo, che è la cosa più grande che abbiamo, sono i privilegiati della misericordia divina. Se togli i poveri dal Vangelo, non si capisce più niente. Dunque, perché non dovrebbero entrare nella Cappella Sistina? Forse perché non hanno soldi per pagare il biglietto?». Non è un pensiero banale e ci deve fare riflettere e indurci a domande profonde su cosa sia l’arte e per chi sia creata anche quella di oggi. Il mondo autoreferenziale dell’arte moderna è giusto? È corretto? Oppure magari senza volerlo contribuiamo tutti alla cultura dello scarto e dell’esclusione che, come ha affermato giustamente il papa, «è un modello falso di società». E allora dall’arte si passa a disquisire sui massimi sistemi e a questo punto il discorso si fa complesso. Curatori e curatrici, critici e storici dell’arte cosa rispondono alle provocazioni del papa? Di chi è l’arte e per chi è? E qual è il suo senso etico?

Le idee di papa Francesco sull’arte non saranno certamente originali, ma un papa non è tenuto a fare il critico d’arte e, grazie a Dio, nemmeno l’intellettuale organico o disorganico che sia. Altri sono i suoi ruoli, altre le istanze a cui deve cercare risposta. Nell’Udienza agli artisti del 23 giugno 2023 promossa in occasione del 50mo anniversario dell’inaugurazione della Collezione d’Arte Moderna e Contemporanea dei Musei Vaticani a cui parteciparono 200 tra pittori, scultori, architetti, scrittori, musicisti, registi e attori da tutto il mondo, Francesco volle sottolineare il «rapporto naturale e speciale tra Chiesa e mondo dell’arte». Il papa aveva allora ricordato che il mondo aspetta con trepida passione i frutti dell’arte e, citando Hannah Arendt, ha ricordato che la creatività dell’artista è «partecipare della passione generativa di Dio». Ma, e questo è un concetto molto importante ed una verità mai sufficientemente ricordata, ha anche detto che gli artisti sono anche un po’ profeti e sanno «guardare le cose sia in profondità sia in lontananza, come sentinelle che stringono gli occhi per scrutare l’orizzonte e scandagliare la realtà al di là delle apparenze». Come i profeti biblici possono pertanto metterci di fronte «a cose che a volte danno fastidio, criticando i falsi miti di oggi, i nuovi idoli, i discorsi banali, i tranelli del consumo, le astuzie del potere». 

In quella udienza, in cui forse Francesco ha espresso i suoi migliori pensieri e le sue più alte considerazioni sull’arte, ricordò agli artisti che essi erano «sentinelle del vero senso religioso, a volte banalizzato o commercializzato. In questo essere veggenti, sentinelle, coscienze critiche, vi sento alleati per tante cose che mi stanno a cuore, come la difesa della vita umana, la giustizia sociale, gli ultimi, la cura della casa comune, il sentirci tutti fratelli. Mi sta a cuore l’umanità dell’umanità. Perché è anche la grande passione di Dio. Una delle cose che avvicinano l’arte alla fede è il fatto di disturbare un po’. L’arte e la fede non possono lasciare le cose così come stanno: le cambiano, le trasformano, le convertono. L’arte non può mai essere un anestetico; dà pace, ma non addormenta le coscienze, le tiene sveglie. Spesso voi artisti provate a sondare anche gli inferi della condizione umana, gli abissi, le parti oscure. Non siamo solo luce, e voi ce lo ricordate; ma c’è bisogno di gettare la luce della speranza nelle tenebre dell’umano, dell’individualismo e dell’indifferenza. Aiutateci a intravedere la luce, la bellezza che salva». Anche in quell’occasione aveva esortato gli artisti a ricordare i poveri che hanno anch’essi «bisogno dell’arte e della bellezza. Alcuni sperimentano forme durissime di privazione della vita; per questo, ne hanno più bisogno. Di solito non hanno voce per farsi sentire. Voi potete farvi interpreti del loro grido silenzioso».

Il Giubileo degli artisti è trascorso malinconicamente nei giorni scorsi senza papa, solo con il suo discorso preparato e letto (e che nel «Giornale dell’Arte» abbiamo riportato integralmente). In questa occasione Francesco ha ancora una volta sottolineato l’importanza dell’arte come linguaggio universale capace di propagare bellezza e unire i popoli e che dovrebbe contribuire a far tacere ogni eco di guerra. Nell’omelia per la Messa nel Giubilare, letta dal cardinale Tolentino de Mendonça, Francesco aveva riflettuto sul ruolo degli artisti come «custodi della bellezza» e sul fatto che le creazioni artistiche possano rivelare le bontà nascoste della storia, offrendo «la pace dell’inquietudine».

Papa Francesco aveva anche in programma di preparare un documentario, «Preachers of Beauty: A Spiritual Journey Through Art and Faith» (prodotto da Andrea Iervolino e Luis Quinelli, insieme a Tatatu e alla Vitae Global Foundation), le cui riprese sarebbero dovute iniziare a marzo, con dialoghi con celebri artisti internazionali sul potere universale dell’arte come strumento di unità e speranza. Il progetto era stato ufficialmente confermato il 20 gennaio, dopo un’udienza privata con papa Francesco nella biblioteca del Palazzo Apostolico, e avrebbe dovuto costituire un richiamo spirituale e un invito ad abbracciare il potere trasformativo dell’arte.

È stato un papa controverso Bergoglio, a volte scontroso, molto amato da una parte dei fedeli e detestato da altri, lontano da schemi, portatore di un pensiero alternativo e spesso molto scomodo, che viene da terre lontane. Alla sua elezione dichiarò anzi che i cardinali erano andati a «prenderlo quasi alla fine del mondo». E con lui una grande parte di mondo a cui non pensiamo mai ha fatto irruzione a Roma e nelle nostre vite.

Sono passati oltre sessant’anni dal 7 maggio del 1964, quando Paolo VI volle incontrare gli artisti per riallacciare un’alleanza tra Chiesa e arte che si era allentata tanto da sembrare sul punto di infrangersi. Il pontefice aveva allora ricordato che la sfida ultima della creazione artistica è quella di «carpire dal cielo dello spirito i suoi tesori e rivestirli di parola, di colori, di forme, di accessibilità». La lezione di quel grande papa ha prodotto frutti e oggi ci pare naturale che l’arte abbia parentela con la fede, e d’altra parte le loro missioni sono analoghe. Braque, in un suo scritto (Il giorno e la notte, edito in italiano da Robin Edizioni nel 2002), osservava che «la scienza rassicura, mentre l’arte è fatta per turbare», e anche Francesco ha ripreso questo concetto. La fede è effettivamente inquietudine, nella sua tensione verso il mistero, come afferma anche l’agostiniano «Inquietum est cor nostrum donec requiescat in te». Francesco, pur con ingenuità e incertezze, ha saputo mantenere questo spirito inquieto di ricerca di bellezza che solo in una dimensione superiore può placarsi e che come fiammella mobile ha agitato il suo pontificato. Ora che Dio l’ha ricoperto con la sua ombra è entrato in una dimensione a noi misteriosa che sarà anche storica e sulla quale gli anni prossimi dovranno riflettere.

Johann Georg Melchior Schmidtner, «Maria che scioglie i nodi», 1700 ca

L’icona «Salus populi romani» custodita nella cappella Paolina della Basilica di santa Maria Maggiore, Roma

Arabella Cifani, 21 aprile 2025 | © Riproduzione riservata

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