Vincitrice del C/O Berlin Talent Award 2024, dall’1 febbraio al 7 maggio Silvia Rosi presenta, nell’Amerika Haus di Berlino, la sua ultima mostra «Protektorat». Di origini italo-togolesi l’artista emiliana (Scandiano, Reggio Emilia, 1992) è ormai una voce affermata nell’arte contemporanea, con uno stile narrativo che mette in dialogo costantemente il concetto di memoria, personale e collettiva, e i sistemi di comunicazione del potere coloniale, artefice di repressione oltre che fisica anche espressiva sulle popolazioni assoggettate.
Così Rosi, da sempre, lavora per sanare una lacuna storica, per dare una voce alle proprie radici e a quelle della comunità diasporica, per troppo tempo uniformata dal pensiero colonizzatore. Per avviare questo processo di riacquisizione identitaria, l’autrice utilizza il ritratto e l’autoritratto, servendosi di un’estetica che risale alla ritrattistica in studio dell’Africa occidentale degli anni Sessanta e Settanta, in cui colori, tessuti, oggetti animavano un planetario di segni, espressioni di storie e di tradizioni, spesso taciute e represse. Nelle sue immagini, l’artista sottolinea la sua appartenenza con una marcata ricerca estetica, senza mai risultare ridondante. La cura per il dettaglio, le finiture camaleontiche, la sovrabbondanza di geometrie e decorazioni non sono inserite per aggiungere significato, ma sono specchio della sua identità e contemporaneamente della sua ricerca artistica.
Oltre alla produzione di immagini, in «Protektorat» Silvia Rosi si avvale anche di rielaborazioni visive di materiale d’archivio appartenente all’Archivio Nazionale del Togo, di immagini in movimento e di un apparato sonoro che riporta a galla antiche lingue africane spazzate via dal francese, dall’inglese e dal tedesco dominanti in Togo e Ghana durante il periodo coloniale. L’azione di critica postcoloniale avviata da Rosi, partendo dalla sua storia personale, scava nel concetto di afrodiscendenza di una collettività: le sue immagini, infatti, sembrano appartenere a un album di famiglia privato che si rende universale, metafora di uno spaccato culturale e storico più esteso, abbracciante la storia di un intero Paese.
Rispondendo alla «cultura della cancellazione», la sua è anche una riflessione critica su come la storia influenzi il modo di essere visti e recepiti, per questo motivo nei suoi autoritratti la figura è pervasa dalla cultura locale africana, dalla prospettiva colonizzata, quasi che il suo viso venga assorbito dalle sue radici, monito identitario imprescindibile.