Due mostre aperte dal 31 gennaio al 15 marzo nella Fondazione Pastificio Cerere sviluppano il tema dello spazio architettonico come spazio mentale.
La prima è la personale di Giovanni Termini (Assoro, En, 1972), «La promessa del vuoto», a cura di Simone Ciglia. Lo spazio architettonico-mentale, per il 52enne pesarese, è quello dei materiali propri dell’edilizia con cui ama costruire spiazzanti installazioni: tubi Innocenti, scale, pedane, recinzioni, armature per la carpenteria e poi cavi in acciaio, blocchi di cemento, laterizi, fasce da trazione, sono il materiale primo di una riflessione sul costruire. «Armatura», «Errata geometria», «La misura di un intervallo» e «Grado di tensione» sono alcuni dei titoli dei lavori degli ultimi anni presentati in questa mostra, accanto ad altri realizzati specificamente per l’occasione. Per Termini è anche un ritorno a casa. Roma la frequentò negli anni della formazione, tra fine anni Ottanta e metà dei Novanta. Era studente dell’Accademia di Belle Arti della capitale e la città fu un’esperienza fondamentale per sviluppare quel senso dell’ambiguità di molte sue concezioni installative, che sfidano equilibri, negano il senso comune, fanno implodere tensioni. A Roma frequentò anche il gruppo di artisti che avevano studio (e taluni casa) nell’ex stabilimento per la fabbricazione della pasta, il Pastificio Cerere, che ora lo ospita. È il cosiddetto Gruppo di San Lorenzo, dal quartiere dov’è ubicato il grande immobile di fine ’800. Quindi, Nunzio, Tirelli, Ceccobelli. Importanti furono anche le visite alle mostre all’Attico di Fabio Sargentini. E poi, a Pesaro, la conoscenza di Mattiacci. Sono questi gli ingredienti di spaesanti costruzioni di dispositivi installativi, che «aprono» su significati non definibili logicamente.
«Aperture» è la seconda mostra presso la Fondazione Pastificio Cerere, nell’ambiente chiuso del silos. La cura il collettivo curatoriale Campo, nato a Roma nel 2015, che qui presenta il terzo capitolo di The Archive Project. Campo mette a fuoco l’architettura vissuta come epifania di idee. In questo caso ha invitato artisti, architetti, fotografi a confrontarsi con il tema dello spazio architettonico inteso come relazione, ovvero congegno non chiuso verso l’interno dalle pareti, ma aperto verso l’esterno mediante porte, finestre e varchi di ogni genere. Tutto questo, basandosi sul principio, dichiarato da Campo, che «la storia dell’architettura può essere letta come una costante tensione tra la continuità del limite e la sua reiterata interruzione».