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Courtesy Alison Watt

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Alison Watt, tra pieghe e panneggi

Tra Ingres e Gnoli, una sintesi della parabola artistica della pittrice scozzese interessata più agli oggetti che ai soggetti

Nicoletta Biglietti

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Dal ritratto, come rappresentazione “esterna” del corpo, al nudo, come indagine di profonda e intima verità. Per approdare poi, in un apparente percorso a ritroso, al tessuto che rivestiva “quei corpi”, in una sineddoche visiva in cui l'assenza si fa presenza. In cui le ombre dei cupi e voluttuosi panneggi diventano tramite tra il corpo e l'anima. Tra, cioè, quella dimensione di eternità e finitezza che appartiene al ritratto quanto alla natura morta. È stato infatti a partire dal genere del ritratto, passando poi per il nudo e approdando infine alla rappresentazione dei tessuti organicamente ricreati, che la poetica di Alison Watt (1965) si è evoluta.

Affascinata sin da giovane allo studio, all'osservazione e alla creazione di dipinti, negli anni ‘80 ha sviluppato la sua ricerca concentrandosi sulla figura umana, in particolare lavorando su autoritratti e studi dal vivo in atelier. È  stato proprio in seguito a una delle sedute in atelier che Watt, notando le impronte di un suo modello disposte su un lenzuolo bianco, ha iniziato a riflettere sulle possibilità comunicative di quei tratti. Perché quelle impronte, così superficiali ma al contempo “profonde”, erano la traccia di un’azione passata che si poneva come collegamento tra una certezza accaduta e un futuro ancora tutto da immaginare.

Verso la fine degli anni '90, Watt si interessò infatti alla pittura di pieghe, tessuti e panneggi che, spesso, erano stati usati come oggetti di scena per i suoi modelli. Lo spostamento di attenzione dal soggetto umano a ciò di cui egli “si serviva”, e si serve, – siano essi drappi, lenzuoli, ma poi anche tovaglie o oggetti quotidiani – ha decretato una tappa fondamentale nella poetica dell'artista che dalla rappresentazione massimamente umana è passata – evitando il ricorso all'astrazione – ad una sineddoche della sua precedente ricerca. A una rappresentazione di una parte per il tutto, in cui sono le ombre, le pieghe e le luci a farsi parole di una narrazione più ampia, di cui l'artista mostra, però, solo un dettaglio.

Alison Watt, Phantom

E se nella prima parte della sua ricerca Watt si ispirava ad artisti come Allan Ramsay, Jean-Siméon Chardin, Francisco de Zurbarán, nei drappeggi si nota invece lo studio attento e rigoroso di Jean-Auguste-Dominique Ingres. Un aspetto, quest'ultimo, riscontrabile sia nel dipinto del 2000 intitolato «Sabine», in cui la meticolosità e precisione nei dettagli è più che mai manifesta, sia in «Phantom», una tela di grandi dimensioni realizzata nel 2007 durante una residenza alla National Gallery di Londra, in cui l'artista ha creato con il tessuto un punto di ingresso, di contatto e di coinvolgimento posto al centro della tela, quale “minima parte di un altro e di un altrove” ancora tutto da vedere e da scoprire.

Le opere di Watt sono, di fatto, dei totem dell'atto stesso del guardare e dell’osservare, con un'attenzione però allo studio, all'analisi e alla composizione, tanto che la sua attenzione si è gradualmente spostata dal soggetto all'oggetto, dall'uomo a ciò che ne rappresenta la mutevole e indefinibile esistenza. Ed è infatti la rappresentazione di una figura umana evocata nella sua assenza, con quella meticolosità nella trasposizione dei dettagli e nella ricreazione di un tempo sospeso di intimità quotidiana, a far suggerire alcune tangenze con la ricerca di Domenico Gnoli. Ovviamente Watt accoglie una dimensione più contemplativa, con un forte approccio intimo e lirico rispetto a Gnoli che invece tende più al surreale e all'onirico, rappresentando spesso un elemento del quotidiano elevato ad icona.

Ma in entrambi i casi l’attenzione si accosta, progressivamente, sempre di più al dettaglio, al particolare, procedendo tramite una solo apparente sottrazione. Sia Gnoli che Watt, infatti, estrapolano un frammento del reale (sia esso un tessuto, una piega) e lo rendono portale verso qualcosa di più grande. E se in Gnoli è spesso un enigma visivo o una critica sottile alla cultura dell’immagine, in Watt quel dettaglio è invece una riflessione sull'assenza, sulla memoria e sull'identità del soggetto rappresentato o evocato.

Perché le nature morte di Watt altro non sono che un ritratto senza somiglianza. Senza, cioè, quell'orizzonte cristallizzato e atemporale – tipico del genere pittorico per eccellenza – che gli permette di abbracciare così una riflessione sulle molteplici possibilità, concrete o metaforiche, di narrazione. Quella riflessione che solo la sineddoche visiva di una natura morta, in realtà così simile a un ritratto, riesce a evocare.

Courtesy Alison Watt

Courtesy Alison Watt

Courtesy Alison Watt

Nicoletta Biglietti, 07 aprile 2025 | © Riproduzione riservata

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