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Veduta dell’installazione di quattro dipinti di «Jackie» e «Jackie (Oro)» (1964) di Andy Warhol.© 2023 The Andy Warhol Foundation for the Visual Arts, Inc. / Concesso in licenza da Artists Rights Society (ARS), New York / IVARO, Dublino, 2023. Foto Naoise Culhane

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Veduta dell’installazione di quattro dipinti di «Jackie» e «Jackie (Oro)» (1964) di Andy Warhol.© 2023 The Andy Warhol Foundation for the Visual Arts, Inc. / Concesso in licenza da Artists Rights Society (ARS), New York / IVARO, Dublino, 2023. Foto Naoise Culhane

Andy Warhol alla Hugh Lane Gallery di Dublino

Una mostra eccezionale offre nuove prospettive sull’artista più conosciuto al mondo

La visita alla mostra «Andy Warhol: Three Times Out», aperta nella Hugh Lane Gallery di Dublino fino al 28 gennaio 2024, riporta alla mente un’osservazione che il critico d’arte Bernard Berenson fece una volta alla storica Iris Origo mentre passeggiavano sulle colline toscane un secolo fa: «Un momento è sufficiente, disse Berenson parlando dell’arte di guardare, se la concentrazione è assoluta».

Questa qualità di concentrazione assoluta si presenta in momenti brevi e lunghi nell’ampio e pacato  percorso allestito dai curatori Barbara Dawson e Michael Dempsey nella Hugh Lane Gallery. Si evidenzia nell’attenzione scrupolosa di Warhol per il colore, la memoria e la mortalità; nel suo rapporto con lo studio (dove, come Auguste Rodin, trovava ispirazione nel «fare il lavoro»); e nel modo in cui ha usato l’autorappresentazione e l’automitologizzazione per creare una visione epocale della vita dell’artista. Poi c’è Warhol, l’artista «storico» che ha visto attraverso il funzionamento dei media nei giorni della protesta degli anni Sessanta; e il regista cinematografico che ha giocato a fare il voyeur smaliziato del sonno, del cibo, dei pettegolezzi e degli amori.

«Andy Warhol Three Times Out» comprende più di 250 opere, in prestito dall’Andy Warhol Museum di Pittsburgh e da istituzioni e collezionisti privati di Stati Uniti, Canada, Irlanda e oltre, che coprono quasi l’intera gamma della sua produzione: disegni, dipinti, serigrafie, film e fotografie. La portata della mostra è tale che opere della collezione permanente della galleria sono state spostate per accoglierne l’allestimento, che si sviluppa in 16 delle 26 gallerie del museo.

Un artista amante dell’arte che nascondeva il proprio talento
La mostra si apre in una sala dalle pareti scure con un facsimile delle «Silver Clouds» (1966) di Warhol (palloncini riempiti di elio e ossigeno che fluttuano e rimbalzano), seguito da una messa a fuoco sorprendente nella seconda sala, ampia e luminosa, dove una fitta selezione di 75 disegni degli anni Quaranta e Cinquanta è appesa a pareti contrapposte, con un’ampia distesa di ritratti di Mao sulla parete intermedia.
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Molti disegni non sono stati esposti al momento della loro realizzazione a causa del loro contenuto omoerotico, mentre un gran numero è stato messo da parte durante la vita di Warhol ed è venuto alla luce grazie all’esaustiva catalogazione delle opere dell’artista dopo la sua morte. Nell’insieme dimostrano l’ammaliante economia di linee di Warhol, che gli è stata utile nella sua prima carriera di disegnatore pubblicitario e di moda di successo. È una stanza che rivela sia le doti naturali di Warhol come disegnatore, sia le prime fasi del suo sforzo di mascherarle, sviluppando una tecnica di blotting e altri metodi di ricalco e riproduzione del lavoro. Robert Rauschenberg una volta ha commentato che «Andy aveva una sorta di facilità che credo lo abbia spinto a sviluppare e persino inventare modi per realizzare la sua arte in modo da non essere maledetto da quella mano talentuosa».
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Questa cornucopia di primi disegni, belli, abbondanti e stranamente strazianti, è un luogo a cui tornare dopo aver visto il resto della mostra e vale da sola il prezzo del biglietto di questa esposizione dal ritmo incalzante.

Warhol regista
Quella «mano talentuosa» si sarebbe poi dedicata al cinema, come dimostrano le versioni digitalizzate di «Sleep» (1963, cinque ore e 21 minuti) ed «Empire» (1964, otto ore e cinque minuti), che nella loro ipnotica monocromia grigio-argento e tremolante rendono pienamente merito a Warhol come regista di film di lunga durata. Vedendo «Sleep» ci si ricorda che, durante il processo di montaggio, Warhol chiese di rimuovere le sezioni in cui il modello, il suo partner di allora John Giorno, si muoveva nel sonno. «Voleva, ha ricordato la montatrice del film, Sarah Dalton, che il film fosse senza movimento». Fu anche proiettato al rallentatore per creare una scena onirica.

È come se Warhol stesse combattendo una battaglia consapevole contro il tempo (e il Tempo) e contro le virtù fondamentali di un mezzo progettato per catturare la luce e il movimento. Ciò è ancora più evidente nell’avvincente serie di 15 dei 363 ritratti di Warhol in quattro minuti di camera-roll della metà degli anni Sessanta, gli «Screen Tests». Qui, la superstar di Warhol Edie Sedgwick, gli artisti Marcel Duchamp e Salvador Dalí e l’attore Dennis Hopper guardano nella macchina da presa con i muscoli del viso immobili. Un «test» logorrioco e molto movimentato del cantautore Bob Dylan è l’eccezione che conferma la regola.

La serie di serigrafie
Le opere più importanti dei cicli di serigrafie di Warhol sono appese disinvoltamente alle pareti stile cubo bianco dell’ampliamento della galleria risalente al 2006. La serie comprende le prime banconote da un dollaro (le sue prime serigrafie), le lattine di zuppa Campbell’s e le scatole Brillo; i ritratti di star del cinema come Marilyn Monroe e di leader mondiali come Richard Nixon e il presidente Mao; i dipinti di storia della sedia elettrica della prigione di Sing Sing; le nature morte di fiori, teschi, martelli e falci.

Questo spazio permette di percepire la bellezza del colore e delle sfumature nell’opera di Warhol, in particolare nella serie avvincente dei dipinti della «Electric Chair» e in una sequenza di immagini di Jackie Kennedy, prima felice e poi affranta all’indomani dell’assassinio di John F. Kennedy nel 1963, mentre le gradazioni di blu portano all’oro. Quest’ultima immagine sembra un richiamo al fondo oro delle icone che hanno popolato l’educazione di Warhol come membro della chiesa cattolica bizantina.

La mostra comprende una suggestiva selezione di autoritratti fotografici, che proiettano l’auto-mito del Warhol dal volto bianco, dallo sguardo vuoto e dalle parrucche, apparentemente privo di affetti e di emozioni: dagli scatti del 1963 di una cabina fotografica che ritrae un Andy muscoloso, simile a Brando, con gli occhiali da sole, alle stravaganze giganti e spigolose del 1986, passando per la serie «Shadow» del 1981 che proietta un’ombra spettrale e selvaggiamente allungata del profilo dell’artista.

Un fratello a colori di Francis Bacon
La mostra si fonde, nel punto più lontano dal suo inizio, con la Francis Bacon Gallery, una sala adiacente allo studio londinese dell’artista di Dublino, splendidamente conservato e illuminato, trasferito nella Hugh Lane nel 1998, dove due piccoli dipinti di teschi di Warhol del 1976 sono appesi, con un potente effetto complementare, accanto a un gruppo di grandi tele di Bacon provenienti dalla collezione permanente della galleria. Qui, l’intenso sfondo acrilico ciano e arancione di uno dei teschi di Warhol è in sintonia con il vicino arancione cadmio di «Kneeling Figure Back View» di Bacon (1982 ca). Si tratta di un’emozionante combinazione che evidenzia la portata di Warhol come «maestro del colore».

Un punto di vista curatoriale parallelo è stato proposto in un’altra mostra, «Endless Variations», allestita in una sala di dimensioni simili nella Ordovas Gallery di Londra. Lì, i mondi cromatici di Warhol e Bacon si completano a vicenda con un effetto non meno affascinante. Una volta Warhol affermò felicemente di essersi appropriato sia dei colori sia dei teschi di Bacon, mentre Bacon espresse la sua ammirazione per gli «Accidents» di Warhol: «Mi piacciono quelli di vari colori della “Electric Chair”». In un saggio in catalogo per «Endless Variations», Martin Harrison, curatore del catalogo ragionato di Bacon, rivela di aver discusso l’idea di una mostra congiunta di Bacon e Warhol con il grande critico d’arte e curatore David Sylvester mentre quest’ultimo stava preparando il suo libro Looking Back at Francis Bacon (2000), in cui Sylvester scriveva: «L’artista che voglio vedere accanto a Bacon è Warhol».

Warhol-Beard-Bacon: un punto di forza creativo ed emotivo
Nella Hugh Lane, la galleria di Bacon e Warhol riceve una potente integrazione da due sale vicine di opere realizzate in collaborazione. In una di esse sono appese 17 pagine della serie di collage «An Introduction to the Things of Life» di Warhol e del fotografo Peter Beard del 1970, un’inebriante serie di ritagli di giornali e riviste, immagini di disastri e di scarabocchi, meditazioni e schizzi annotati dai due uomini, con un piccolo Warhol ondeggiante che scompare in un barattolo di zuppa Campbell’s aperto, un’attrazione particolare. In una sala che ospita anche «Poison (Collaboration No. 62)» (1984) di Warhol e Basquiat e «Untitled (Madonna: I’m Not Ashamed)» (1985) di Warhol e Keith Haring, basato su una prima pagina del «New York Post», si percepisce un toccante spirito collaborativo, derivato da quello che Warhol definiva il «gioco creativo» dei due uomini.

Nella seconda sala, un affascinante assemblaggio di fotografie di Warhol, di diari e di appunti di Beard crea un ritratto commovente di un Warhol aperto alla collaborazione artistica con Beard, che considerava «uno degli uomini più affascinanti del mondo». In queste affascinanti testimonianze delle amicizie decennali che Beard mantenne sia con Warhol sia con Bacon, emerge un Warhol che si colloca creativamente ed emotivamente in una posizione intermedia tra il leggendario maestro che presiedeva ai giovani talenti, ai videomaker e agli assistenti di serigrafia negli studi della sua Factory a Midtown e Lower Manhattan, e l’allegro festaiolo che accettava ogni invito a cena da Mick Jagger e Jerry Hall.

La stanza Warhol-Beard contiene anche un esempio sorprendente della loro creatività condivisa e inconsapevole: il disegno al tratto di Warhol del 1978 di una falce e martello in una delle pagine collaborative su cui lavorò nei diari di Beard, altamente annotati e ricchi di interventi a collage (Warhol li chiamava «libri di viaggio»). La pagina reca la suggestiva iscrizione «’78 Diary (@ lunch Feb. 19 / Le Relais on 63rd and Mad. Avenue)». Il disegno di Warhol, con il suo tratto puro e deciso, riporta il visitatore in modo associativo alla verve grafica dei primi disegni, alla grande falce e martello ancora viva al centro della mostra e a un film del 1976 di Vincent Fremont, «Andy Warhol, Andy Mops a Hammer & Sickle». Quest’ultimo è un esempio dell’importante lavoro svolto dai videografi di Warhol nel catturare l’artista al lavoro: il «mopping» è l’uso gestuale che l’artista fa di uno spazzolone per indicare l’azione di dipingere su larga scala.
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Ritratti dell’artista in natura
Nella sala Warhol-Beard si trova un’importante e rivelatrice serie di immagini collage di grande formato che Beard, maestro della fotografia naturalistica, scattò a Warhol nel 1972. Tra queste ce n’è una scattata a Montauk Point, in occasione del compleanno di Warhol, che lo ritrae mentre stringe un libro, regalo dello scrittore Truman Capote, e sfoggia un sorriso timido ma non affettato. Si tratta di un momento affascinante e senza fronzoli che riporta lo spettatore alla fotografia di un giovane Andy raggiante, in un felice gruppo familiare della Pittsburgh operaia, dove il fragile ma sorridente artista prodigio, malato cronico per gran parte della sua infanzia, è circondato dai genitori e dai fratelli maggiori più robusti.
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In questo gruppo di fotografie di Beard è palpabile il senso dell’emozione che prima si costruisce e poi si sprigiona, permettendoci di vedere un lato sensibile, fuori dagli schemi di Warhol, l’opposto dell’immagine consapevole del generale creativo che si rivolge al pubblico.

Rivestimenti d’argento
La mostra «Andy Warhol Three Times Out» è stata realizzata con un occhio di riguardo per la qualità e la completezza, ma proprio questa completezza significa che non tutto può essere avvincente come i suoi primi disegni, i migliori dipinti su serigrafia, i film «Screen Test», il legame in bilico con Bacon o le collaborazioni storiche con Beard, Haring, Basquiat e Clemente. «Silver Clouds» è stato un punto fermo inevitabile delle mostre su Warhol sin dalla prima al MoMA di New York nel 1989, ma nel contesto di un allestimento così coinvolgente questi cuscini argentati sono un affascinante diversivo, benché non possano reggere l’importanza che talvolta viene assegnata all’opera dell’artista-espressionista astratto.

Le opere mimetiche dell’ultimo periodo di Warhol mancano di interesse a meno che non siano utilizzate nell’atto di camuffare qualcosa, come quando sono stratificate con effetto drammatico sull’«Ultima Cena» di Leonardo (un’opera inclusa nella mostra «Andy Warhol», in epoca di lockdown, alla Tate Modern nel 2020) o un autoritratto con parrucca spaventosa di Warhol del 1986 (la sentinella d’ingresso al MoMA, 1989). Per questo motivo, «Camouflage» (1986), quattro tele con un motivo identico ripetuto in quattro interessanti combinazioni di colori ma che non nasconde nulla, sembra privo di scopo se appeso al centro della mostra della Hugh Lane Gallery, di fronte a una serie virtuosa di autoritratti dell’artista.

Il tris è un incanto
«Andy Warhol Three Times Out» è una mostra che si potrebbe vedere per tre volte e avere la sensazione di aver solo iniziato a scalfire la superficie di ciò che si può scoprire in un’indagine così ampia e non dogmatica del lavoro dell’artista; del suo esplicito legame con la storia dell’arte, sia passata sia contemporanea, e della sua sperimentazione profondamente ponderata sulla ripetizione, la scala e, soprattutto, il colore.

I curatori hanno presentato un ricco contesto per aree ancora inesplorate della vita di Warhol, in particolare le collaborazioni con Beard e Bacon, ma hanno evitato un’eccessiva concentrazione e la tentazione di privilegiare un periodo della carriera di Warhol rispetto a un altro, o di cercare un’attualità per gli anni Venti del Duemila. (Il filone su Donald Trump esplorato in «Warhol from A to B and Back Again», la magistrale rassegna al Whitney nel 2018-19, all’epoca sembrava una distrazione e da allora non è invecchiato bene).

In effetti, togliendo di mezzo l’opera, i curatori hanno concesso a Andy Warhol, lo studente d’arte e l’artista, il più familiare, il meglio archiviato, il più efficacemente automitologizzato e l’inevitabile praticante della fine del XX secolo, lo spazio per continuare a sorprendere con un’arte che, in carne e ossa, rimane imperdibile e come nessun’altra; e per ispirare e premiare l’assoluta concentrazione (dello spettatore).

Louis Jebb, 28 dicembre 2023 | © Riproduzione riservata

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