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Francesco Arcangeli a 26 anni, in casa di Cesare Gnudi. © Biblioteca Comunale dell’Archiginnasio, Bologna. Fondo documentario Francesco Arcangeli

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Francesco Arcangeli a 26 anni, in casa di Cesare Gnudi. © Biblioteca Comunale dell’Archiginnasio, Bologna. Fondo documentario Francesco Arcangeli

Arcangeli anticrociano oltrepassò perfino Longhi

Cinquant’anni fa moriva a Bologna lo storico e critico d’arte (ma anche poeta, direttore di museo, curatore e critico letterario). Voleva «una critica sporca di vita» perché, diceva, «non sei critico se non “senti” l’arte»

Fabio Massaccesi

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Sono già trascorsi cinquant’anni da quando Francesco Arcangeli ci ha lasciato. Nato a Bologna il 10 luglio 1915, fu storico e critico d’arte, ma anche poeta, direttore di museo, curatore e critico letterario, e dal 1967 al 1974 professore di Storia dell’arte nella Facoltà di Lettere dell’Università della sua città. La stessa cattedra che era stata del suo maestro Roberto Longhi, con il quale si era laureato nel 1937 con una tesi sul pittore bolognese Jacopo di Paolo.

Ricordarlo oggi, a mezzo secolo dalla sua prematura scomparsa in quel 14 febbraio 1974, è compito arduo e non nego di essere in qualche misura intimidito da questa richiesta, che pure mi lusinga. Non l’ho mai conosciuto. Sono nato proprio in quel 1974. Questa ammissione non vuole essere una scusante nei confronti di quanti, avendolo conosciuto in qualità di allievi, amici e colleghi, potrebbero non riconoscersi nelle mie parole o di tutti coloro che si sentiranno delusi per una ricorrenza che avrebbe meritato ben altro elogio. Non averlo conosciuto può essere però un vantaggio. L’Arcangeli che posso tratteggiare è quello rivelato attraverso la lettura dei suoi testi e scrutinato attraverso la sua intensa corrispondenza privata (edita e inedita), nel cannocchiale specifico dell’arte medievale, campo di mia stretta competenza.

Quanto sia ancora attuale Arcangeli a cinquant’anni dalla sua morte e quale sia la sua eredità è il punto dal quale vorrei provare a tratteggiare un «quasi scorcio» della sua avanguardia, per citare il titolo sulla vicenda pittorica cesenate da lui delineata nel 1964 (Pittori a Cesena. Quasi uno scorcio della vicenda pittorica cesenate, in La Chiesa di San Domenico in Cesena, Editore Alfa, Ndr). Un legame con la terra di Romagna (che è anche la mia terra), che affondava nelle radici della famiglia (il padre Adolfo era di Corriano) e nei ricordi delle estati afose di Rimini, trascorse a San Giuliano alla scoperta, assieme all’amico Alberto Graziani, di quei pittori locali di cui nell’agosto del 1937 dava conto, con entusiasmo sincero, al maestro. Alla discussione della tesi sarebbe seguita la frequentazione di Longhi, che nel 1949 lo avrebbe invitato a far parte della «trincea di via Zamboni», sperando che si potesse esaudire presto (e così non fu) il desiderio di «vederti continuare il lavoro a me caro» e «tener desta […] la tradizione diciamo pure “longhiana”».

In quel 1949 le espressioni militari segnano la tensione di tempi eroici consumata in un campo di battaglia tra pensatori di varia estrazione, in cui spiccava Benedetto Croce, su che cosa fosse o no la storia dell’arte e di come si dovesse esercitarla. Lo stesso Alberto Graziani, che nel corso della guerra sarebbe caduto, si dichiarava pronto «a formare con Arcangeli e con chi vorrà aggiungersi il Fronte longhiano» (1937). I due allievi fedeli erano i «due elementi», come li aveva soprannominati con ironica ammirazione paterna il maestro nel 1942, ma certamente anche parti di un composto chimico che Longhi si apprestava a preparare.

Un «fronte» e una «trincea» bolognesi che, proprio in quel 1949, segnano il clima in cui vede la luce la rivista «Paragone», il giusto ordigno capace di far detonare la «forza dei longhiani»: «Longhi, Arcangeli, Bologna, Briganti, Boschetto, Causa, Cellini, Fornari, Zeri (Gregori?). Mi accorgo che siamo tanti». Tutti in grado di opporsi a quelle «rivistine letterarie», spazzandole via attraverso «filologia, critica, alta divulgazione, lettura personale», un mix (spiegava nel ’49 Longhi confessando i suoi intenti difensivi per la prima volta al solo Arcangeli) capace di funzionare attraverso un innesco simile «all’unione di Stefano fiorentino».

«Paragone» era anche (ma di fatto non solo) la risposta ai reiterati attacchi diretti a Longhi e ai suoi, l’ultimo dei quali era stato sferrato durissimo in quello stesso 1949 da Antonio Cederna sulle colonne della neonata rivista letterario crociana «Lo Spettatore italiano», con un articolo («I luoghi comuni della nostra critica d’arte») che, come scrisse il maestro all’allievo, era una vera «stroncatura che riguarda me soprattutto, ma anche te». Cederna si era accanito su Arcangeli a partire dal suo Impressionismo a Venezia, apparso nel 1948 in «Rassegna d’Italia» (e che gli sarebbe valso invece il premio della critica italiana alla Biennale di Venezia), da lui additato quale esempio di cattiva «prosa critica, […] falsa e disgustosa, che lascia malinconici e nauseati». Le posizioni di sapore crociano non potevano essere più divaricate, visto che, in una lettera del 12 agosto 1948, Longhi aveva invece elogiato Arcangeli per la capacità di dimostrare come, stendendo le «proprie reazioni su opere d’arte, non ci si può esimere dal farne la storia» e dire così «come andarono le cose. E mi pare tu lo dica come non era stato mai detto».

È in questo giro di anni che Arcangeli matura le posizioni che avrebbe sviluppato nell’arco della sua intensa carriera, guadagnandosi amicizie importanti ma anche acuminate ostilità. Si tratta di un momento seminale che ad oggi mi pare ancora criticamente sfocato. Mentre attende alla sofferta recensione del Viatico (in principio aveva proposto un titolo esplicativo, Critica, storia e poesia nel Viatico veneziano di Roberto Longhi), pubblicata nel 1948 su «Rassegna d’Italia», non manca di riconoscere che non si può aspirare a essere critici senza la capacità di «sentire l’arte», e di conseguenza di farla sentire agli altri, con le qualità che sono del poeta. In questo modo, Arcangeli difende Longhi, ma di fatto mette a verbale l’impianto della propria visione critica, portata avanti lungo tutta la vita con il senso alto di un’etica incapace di compromessi.

Una lunga lettera scritta al maestro nel 1947 esplicita la consapevolezza di doversi pronunciare in merito al dibattito che si era creato attorno alla distinzione tra letteratura e poesia e all’impossibilità, che Croce aveva dogmatizzato senza appello, che la buona critica potesse aspirare a un afflato poetico e lirico: «Purtroppo io non sono crociano, perdoni se le ripeto la sua frase, ma mi torna, perché mi par di sentire in Lei come in me, quasi un oscuro disagio di esserlo oppure di non esserlo». A soli 32 anni Arcangeli si oppone con lucidità agli «schemi» e agli strumenti «elefantiaci» di Croce. Se questi sono incapaci «di restituire una realtà, non empirica, ma che sentiamo vivente nel nostro spirito, ebbene, io sono per abbondonare la teoria e seguire la realtà: se Croce mi fornirà una ulteriore sistemazione teoretica che soddisfi l’esigenza, ben venga […]; altrimenti dovrò concludere che il nostro flusso logico non è stato capace di seguire il nostro flusso spirituale».

Non basta. Arcangeli corregge la teoria crociana dei «distinti» con quella personale dei «prevalenti»: «Nel circolo spirituale non esistono momenti e funzioni assolutamente distinte; ma esistono funzioni e momenti in cui un atteggiamento spirituale “prevale”, senza cancellare gli altri. Ogni atto è un atto umano, in cui si presenta tutto l’uomo; su cui l’uomo critico non recide le altre facoltà, l’uomo lirico e così via». A queste convinzioni Arcangeli avrebbe aderito tutta la vita; ma qui, forse per la prima volta, esse emergono in risposta all’urgente necessità di dar voce «all’attività spirituale in cui esistono infinite sfumature, innesti, gradazioni». Quella lettera è il suo manifesto critico oltre Longhi. E ci voleva un certo coraggio. Lo snodo di metodo non era di poca cosa e minacciava anche la filologia tecnica che non fosse parimenti un engagement emotivo ed esistenziale, verso il nostro modo di «esistere nella vita».

Da qui è un crescendo: un balzo in avanti e senza ritorno che spiega «Poeti e pittori di Francia» apparso nel ’49 in «Rassegna d’Italia» fino al «Wiligelmo» del 1951 in «Paragone». Quest’ultimo diverrà presupposto della teorizzazione del «tramando», successivamente sviluppata nelle dispense per le lezioni universitarie del 1967-70 (Corpo, azione, sentimento, fantasia) e nella mostra «Natura ed espressione nell’arte bolognese-emiliana» del 1970, in cui emerge forte il valore di un’arte «come peso e necessità di vita» e in cui lo scultore romanico acquista una funzione paradigmatica per ogni possibile tramando che porta «per risorgive variate e per nodi capitali, da Wiligelmo almeno fino a Crespi […] e giunge fino a ieri, e precisamente in quell’aspetto della pittura di Giorgio Morandi che si potrebbe chiamare di materia».

L’esaltazione dei «valori umani» sarà alla base anche del successivo Lo spazio romantico del 1972. In un «rapporto senza tregua» con le opere, Arcangeli deforma lo spazio-tempo e accorcia le distanze (l’uomo del suo Wiligelmo coincide con «l’uomo di pena» di Ungaretti), costruendo una idea nuovissima di contemporaneità (pensiamo al suo Pollock), e in questo senso va letto il plauso che Mina Gregori rivolge al suo Bastianino del 1963 in una lettera in cui sottolinea l’essenza dell’approccio critico e storiografico dell’amico: «Ho già cominciato a leggere il testo, non senza prendermi degli anticipi sul finale che illuminano tutte le pagine di bagliori imprevisti, e inserisce il “Bastianino” in una vicenda che ha durato nella Valle Padana e dura ancora. Grazie anche per queste precisazioni (e ti posso ringraziare, io che sono “di quella valle”)».

Sin dal 1948 almeno (Impressionismo a Venezia) il giovane Arcangeli aveva fatto coincidere la storia dell’arte con la critica d’arte, come gli aveva fatto notare ammirato lo stesso Longhi. Non era un raggiungimento inconsapevole, bensì lungamente meditato. Nella lettera dell’anno prima da cui siamo partiti egli era risoluto: «anche Lei [Longhi] non crede alla poesia assolutamente pura; non sarà concesso allora credere anche alla critica non assolutamente pura?». Ne nasce una critica sporca di vita, che fa tutt’uno anche con la poesia. Quest’ultima non è meno sentita da Arcangeli che, come sappiamo, l’avrebbe costantemente praticata, e che in primo tempo si era persino deciso a farne il solo perno della sua vita a scapito della storia dell’arte (lettera a Longhi, 12 settembre 1938). Una decisione che gli pareva però come il taglio di una gamba, spiega.

Sappiamo che non andò così e quella metaforica mutilazione dovrebbe ammonire noi oggi a non scindere l’Arcangeli storico dall’Arcangeli poeta: in lui si consuma piuttosto il miracolo dell’unione di Stefano fiorentino, ricordata da Longhi, e meglio ancora la messa in pratica delle sue «prevalenze». Un tale sforzo non può che andare nella direzione di una storia dell’arte adeguata alla critica dell’arte, sebbene questo aspetto fosse troppo complesso perché emergesse nelle sue lezioni universitarie.

Alla cattedra bolognese egli sarebbe però arrivato tardi, in mezzo una vita piena, ma non facile. I suoi primi insegnamenti erano stati segnati anche dalle contestazioni studentesche, smaniose di ribaltamenti tra antico e moderno, come lui stesso rievocava nel discorso tenuto alla fine del ’68 in occasione del conferimento del Premio Feltrinelli, che aveva voluto intitolare «Uno sforzo per la storia dell’arte». Rimarcando come ineludibile la prospettiva generazionale «con tutti i suoi beni e tutti i suoi mali», egli aveva saputo infittire le sue lezioni di nomi contemporanei, da Lichtenstein a Warhol. Qui la sua avanguardia vera, la sua eredità agli storici della nostra generazione, dopo cinquant’anni. È a noi che si rivolgeva profeticamente nel ’68: «Sarà il compito dei nostri allievi; o di chi, comunque, verrà dopo di noi; di chi si prepara a vivere in un mondo diverso». Quello che aveva proposto era un capitolo lungo che andava molto oltre la vita personale di ognuno.

Non so, se dopo cinquant’anni siamo stati in grado di raccogliere un’eredità tanto feconda, o se invece l’abbiamo tradita. Arcangeli partiva dall’interno della disciplina, vegliata dalla filologia, verso gli orizzonti spalancati della vita, dove oggi alla cultura universitaria pare sufficiente cercare una temperie interdisciplinare spesso però solo di superficie.


L’autore dell’articolo è professore associato presso l’Università di Bologna

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Fabio Massaccesi, 26 marzo 2024 | © Riproduzione riservata

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