C’è una saggezza antica nello sguardo di Arpita Singh (Baranagar, 1937), un calore discreto che, tuttavia, non tradisce le fatiche di un’esistenza segnata. Con oltre sessant’anni di carriera alle spalle, la sua voce è tra le più autorevoli del panorama artistico indiano. Pur forte di un’eredità artistica consolidata, Singh ha sempre guardato, e continua ad avvicinare, le generazioni future, come la scena artistica contemporanea dell’India e la comunità di giovani artisti che nel suo lavoro si riconoscono.
Questa sintonia è al centro di «Remembering», la sua prima personale all’estero, un traguardo che per assurdo non aveva ancora raggiunto nonostante la sua importanza. La mostra, allestita nelle Serpentine Galleries di Londra dal 20 marzo al 27 luglio e curata da Hans Ulrich Obrist insieme a Tamsin Hong e Liz Stumpf, con il supporto di Richard Install e Zsuzsa Benke, riunisce dipinti, disegni e installazioni dell’intero arco della sua carriera, dalle opere più precoci a quelle più recenti.
Obrist racconta di essersi imbattuto per la prima volta nel suo lavoro mentre conduceva ricerche per la collettiva «Indian Highway» nel 2007. L’incontro con Singh lo colpì al punto da riconoscere l’urgenza di inserirla in una programmazione di mostre dedicate ad artisti pionieristici, il cui lavoro, però, non aveva ancora ottenuto il giusto riconoscimento internazionale. La capacità di Arpita Singh di generare immaginari narrativi attraverso la pittura è ciò che più lo sorprende: «È una vera creatrice di mondi, capace di realizzare dipinti straordinari. Come lei stessa descrive, le sue opere più piccole sono come racconti brevi, mentre quelle più grandi possiedono la complessità di un romanzo». In numerose conversazioni Arpita Singh ricorda di come fosse solita inventare storie, prima ancora che disegni, preoccupandosi di preservarle nel tempo, dando materialità concreta ai personaggi di volta in volta scaturiti dalla sua immaginazione.
La dimensione del racconto permea infatti l’intera opera dell’artista, che spesso viene assimilata a un enigma visivo. Un intreccio di elementi disparati, che sovvertono ogni logica di coerenza apparente, finisce per creare mondi visivi che connettono popolazioni, culture e lingue differenti, in periodi e luoghi diversi della storia umana. La sua «visione infantile», che si dipana attraverso elementi primari ricorrenti nella figurazione (l’auto, l’aereo, il carroarmato) la libera dalle leggi della prospettiva, permettendole di generare spazi surreali nei quali tuttavia, questa apparente dimensione idilliaca, nasconde al suo interno una forte tensione che riflette le pericolosità del mondo contemporaneo. Come sostiene il critico Soumitra Das: «Arpita Singh ama condurti lungo un sentiero illusorio fino a quando non ti ritrovi nel bel mezzo di un enigma, una sparatoria, una strada affollata di macchinine, un gruppo di papere di plastica, soldati che emergono da una piscina di ninfee, o un cielo attraversato da aerei in volo».