ARTICOLI CORRELATI
Nel 1967 Giulio Paolini concepisce «Lo Spazio» e dispone queste otto lettere lungo un cerchio inscritto in un volume cubico, rendendo letteralmente visibile «lo spazio», mentre Gino de Dominicis si cimenta, qualche anno dopo, seduto sul bordo di uno stagno nel «Tentativo di far formare dei quadrati invece che dei cerchi attorno ad un sasso che cade nell’acqua» (1969). Sotto forma di tautologia o di sfida alle leggi della fisica, ecco la leggerezza e la forza di un’idea, così come la ricerca degli effetti di un pensiero nel mondo reale, che guida questi artisti. Questa sorta di quadratura del cerchio è visibile in ogni retrospettiva dedicata a un movimento unito dalla convinzione che la «scelta della libera espressione genera un’arte povera, legata alla contingenza, all’evento, al presente, alla concezione antropologica, all’uomo “reale”» (Marx). Queste, nel 1967, le parole del critico Germano Celant, che raggruppò queste proposte sotto la voce «arte povera», mutuando il termine dal regista polacco Jerzy Grotowski. Quest’ultimo, nello stesso periodo, si riferiva con quell’espressione a una forma di teatro in cui il lavoro fisico dell’attore aveva la precedenza su costumi, scenografie e musica.
Carolyn Christov-Bakargiev, curatrice della mostra «Arte Povera» in corso fino al 20 gennaio 2025 nella Bourse de Commerce-Pinault Collection di Parigi, ha interpretato questa poetica con una presentazione collettiva di 13 artisti, le cui opere sono disposte in un cerchio al centro dell’edificio, che si dirama in focus monografici negli altri spazi della Bourse de Commerce. La mostra, incentrata sugli anni Sessanta-Settanta, si colloca tuttavia sul lungo periodo, con risonanze a monte e a valle, disseminate nelle sale o opportunamente incapsulate nelle vetrine intorno alla Rotonda. Le tensioni sono palpabili, come lo sono per qualsiasi storico, soprattutto se studia le forme di sparizione, o almeno coloro che hanno cercato di sparire o di coprire le proprie tracce.
Il manifesto realizzato da Alighiero Boetti all’anno del battesimo del movimento elencava i cognomi di 16 artisti, ma li associava a una sorta di codice che rimane tuttora enigmatico. Giovanni Anselmo ha intitolato «Invisibile» un parallelepipedo di piombo con incisa la parola «Visibile». Sotto di esso c’è un vuoto visibile solo a livello del suolo, proprio dove l’artista colloca i suoi proiettori di diapositive. Alla giusta distanza da un supporto, essi proiettano la parola «Particolare», che altrimenti, in assenza di ostacoli, si dissolve nell’infinita dispersione del fascio di luce. È tutta una questione di distanza, dunque, come indica anche Pier Paolo Calzolari nell’ultima parte della «Casa ideale», concepita nel 1968: qui il visitatore, guardando attraverso un cannocchiale, viene precipitato nello spazio di una fotografia, che mostra uno stato precedente, così riattivato.
La distanza è anche quella creata dal tempo, con il quale Giuseppe Penone ha un rapporto molto particolare fin dalle sue prime opere nei boschi del suo paese natale, il Piemonte («Alpi Marittime», 1967-68). Stringendo con la mano il tronco di un giovane albero, l’artista dichiara di alterarne la crescita e, appoggiando una struttura di legno grande quanto il suo corpo sul letto di un ruscello, si trova coinvolto nel flusso incessante dell’acqua e nel continuo cambiamento che essa incarna. Questa lieve incisione che l’esistenza umana produce nel tempo, questo frammento provvisorio che si ritaglia, è, nel modello della finitezza, un modo per fondersi in una scala temporale più lunga, quella della crescita delle piante e dei cicli della natura.
Per chi intraprende un simile dialogo con il tempo, in contrapposizione al tempo che passa o alla natura ancestrale dei materiali e dei gesti, la durata non è l’ultima delle sfide, ed è difficile evitare di sopravvalutare l’oggetto come opera d’arte, o addirittura come capolavoro: «Objet cache-toi» («Nascondi l’oggetto»), leggiamo, anche se di sfuggita, su uno degli igloo di Mario Merz. I vuoti e le trasparenze delle reti metalliche e dei disegni di Marisa Merz, mescolati a vibranti lampi di luce, sono stati esposti meglio, di recente, a Villeneuve-d’Ascq.
Lo spazio dedicato a Emilio Prini, al piano interrato, con il suo pavimento nero e sonoro e il ticchettio degli interruttori che azionano i neon posti agli angoli e al centro, conserva nel suo aspetto rudimentale qualcosa di inquietante che resiste alla semplice spiegazione. Allo stesso modo, la sala dedicata a Michelangelo Pistoletto, al primo piano, ha l’efficacia di una trappola, con le sue onnipresenti superfici specchianti, alcune serigrafate con sbarre e che riecheggiano la gabbia metallica sferica in cui è impigliata la palla di giornale di «Mappamondo» (1966-68).
È qui, in un’opera di Pistoletto, che incontriamo Anselmo, Gilberto Zorio e Penone assorti in una «Sacra Conversazione» (1975), di cui non conosceremo mai il contenuto, anche se nulla sembra poter sfuggire a questo sguardo indagatore che pretende di vedere tutto e scava nello spazio esposto fino alla vertigine.
Arrivati al secondo piano, prima dell’inizio del ciclo di presentazioni monografiche, una scultura di Mario García Torres, un’eco contemporanea, ci coglie di sorpresa. Basata sull’insegna dell’One Hotel aperto da Alighiero Boetti a Kabul (Afghanistan) all’inizio degli anni Settanta, evoca il luogo e la mitologia ad esso associata. In cima è appollaiato un gufo, che evoca quello che l’artista teneva con sé quando viveva nella capitale afghana fino all’invasione del Paese da parte delle truppe sovietiche nel 1979: «Rémé Waiting for Boetti in Kabul 1978 ca» (2024). E, come il gufo orfano, si può essere colti da una potente ondata di nostalgia. Così, in questo edificio che si visita dal basso verso l’alto, girando sempre in tondo, si ripensa all’inizio, alla sala dove si possono vedere materassi di Pier Paolo Calzolari, fotografie che raccontano gli inizi dell’Arte Povera e, su un piccolo schermo piatto, «Forest of Lines» di Pierre Huyghe (2008).
Il divario tra Penone e sette accoliti che trasportano una trave di 12 metri per le strade di Monaco di Baviera nel 1970 e la registrazione video di una mostra immersiva organizzata da Pierre Huyghe era già presente e continuava a crescere. Nel lavoro di Huyghe, l’interno dell’Opera House di Sydney si trasforma in una foresta esplorata per 24 ore da visitatori dotati di lampade frontali e guidati da un canto, alla maniera delle songlines degli aborigeni: è la semplicità nello sforzo di corpi in movimento, qui e ora, di fronte all’infinito intreccio delle nostre finzioni e dei nostri miraggi. Époque, regarde-toi.