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Una scultura albero di Giuseppe Penone è allestita davanti all’ingresso della Bourse de Commerce, sede della Collection Pinault, nel quartiere centrale di Les Halles, annunciando già da alcune settimane l’attesa mostra «Arte Povera», che si apre il 9 ottobre. Un’opera, dal titolo «Idee di pietra-1532 kg di luce», in cui Penone dà corpo a uno dei principi fondamentali della corrente teorizzata nel 1967 da Germano Celant, la fusione tra natura e cultura. La mostra, curata dalla critica d’arte, specialista del movimento artistico, Carolyn Christov-Bakargiev, ex direttrice (fino al dicembre 2023) del Castello di Rivoli Museo d’arte contemporanea, allestisce fino al 27 gennaio 2025 più di 250 opere, un’importante selezione delle quali appartiene alla collezione di François Pinault. Si aggiungono poi i prestiti generosi dei musei torinesi, il Castello di Rivoli e la Fondazione Arte Crt, del Museo e Real Bosco di Capodimonte, del Centre Pompidou di Parigi e della Tate di Londra, oltre che delle collezioni personali degli artisti.
L’allestimento ruota intorno ai 13 esponenti maggiori dell’Arte povera, un movimento che ha rivoluzionato il linguaggio dell’arte contemporanea (Giovanni Anselmo, Alighiero Boetti, Pier Paolo Calzolari, Luciano Fabro, Jannis Kounellis, Mario e Marisa Merz, Giulio Paolini, Pino Pascali, Giuseppe Penone, Michelangelo Pistoletto, Emilio Prini e Gilberto Zorio), creando anche un dialogo inatteso ed efficace con passato e futuro; da un lato opere antiche, anche prestate dal Louvre, dall’altro commissioni affidate a giovani artisti eredi dei poveristi: «A metà tra alchimia, arcaismo, panteismo, fenomenologia e coscienza politica rivolta al posto dell’essere umano nell’universo, questa mostra offre una nuova esperienza dello spazio, un ancoraggio temporaneo ma essenziale nel tempo e nello spazio dell’Arte povera, la cui eredità continua a nutrire la creazione più contemporanea», ha spiegato Emma Lavigne, direttrice della Bourse de Commerce.
Ne abbiamo parlato con Carolyn Christov-Bakargiev.
Com’è nata l’idea della mostra?
Nell’estate del 2023 Emma Lavigne mi ha voluta incontrare su invito di François Pinault, che desiderava affidarmi la curatela di una grande mostra sull’Arte povera. All’epoca mi preparavo a lasciare la direzione del Castello di Rivoli e ad andare in pensione. Ma ho accettato per due motivi: il primo è che è difficile dire di no a una propria passione, ho un legame forte con l’Arte povera. È stata la scuola di una vita. Nel 1987 scrissi un articolo, che non uscì in Italia, per l’edizione internazionale di «Flash Art» sul ventennale della famosa pubblicazione di Germano Celant del novembre 1967 per quella stessa rivista, ma pose le basi del volume che ho pubblicato con Phaidon Press nel 1999. Il secondo motivo è la qualità della collezione di Pinault, con opere poveriste molto belle, non solo di Penone, artista che apprezza particolarmente. Una collezione che ha costituito anche grazie a galleristi come Durand-Dessert e Christian Stein di Milano e alla consulenza di Elena Geuna. C’è poi una coincidenza tra la Collezione Pinault e quella del Castello di Rivoli (anche grazie alla Fondazione Crt), poiché entrambe presentano un corpus importante di opere proveniente da Christian Stein.
Perché era necessaria oggi una mostra sull’Arte povera?
Perché viviamo in un’epoca in cui le tecnologie, che usiamo quotidianamente, risultano opache alle persone, il cellulare è diventato una protesi e l’Intelligenza Artificiale galoppa. Perché c’è una sorta di malinconia, rispetto alla fine del mondo, legata alla crisi ecologica. Perché l’esperienza che abbiamo della soggettività si costruisce attraverso lo schermo. Tutto ciò ha incoraggiato la nascita di un sentimento di fragilità dell’io, di distacco dell’io dalla vita vissuta. In questo momento di transizione digitale è essenziale vivere opere d’arte nate come riduzione fenomenologica dell’esperienza del reale. Alla metà e alla fine degli anni Sessanta gli artisti dicevano che un’opera doveva essere reale, non una rappresentazione.
Qual è il contribuito maggiore che l’Arte povera ha dato alla storia dell’arte?
La nascita dell’installazione. Prima dell’Arte povera c’erano gli ambienti di luce, per esempio con Lucio Fontana, che permettevano di vivere un’esperienza, ma staccata dal mondo. I poveristi sono i primi a creare opere in cui l’opera stessa consiste nella relazione tra lo spettatore e i materiali in un dato spazio. Non si capisce esattamente dove inizia e dove finisce l’opera. Si transita attraverso l’opera. L’installazione nasce anche dalla presa di coscienza del funzionamento del palcoscenico. Non a caso Celant conia il termine «Arte povera», nel ’67, per la mostra alla Galleria Bertesca di Genova, a cui partecipano Luciano Fabro, Pino Pascali, Emilio Prini, Alighiero Boetti, Jannis Kounellis e Giulio Paolini, mutuandolo dal teatro povero di Jerzy Grotowski, in opposizione alla società dello spettacolo e dei mass media da cui, negli Stati Uniti, è emersa la Pop art. Grotowski aveva eliminato le luci, la scenografia, persino il regista, e talvolta anche la divisione tra pubblico e scena, dando importanza all’elemento più povero, l’attore. Kounellis diceva: la realtà può essere opera d’arte a condizione che lo spazio espositivo diventi una scena teatrale. È da qui che è nato un genere artistico nuovo: l’installazione.
L’Arte povera è ancora attuale? Si può dire che i poveristi siano stati visionari anticipando, per esempio, la tematica ecologica prima che l’ecologia diventasse un’emergenza sociale?
È vero che alcuni artisti dell’Arte povera, come Penone, Mario Merz o ancora Zorio, riflettendo sull’equilibrio tra civiltà urbana e rurale, hanno anticipato il pensiero ecologico. Un’opera caposaldo in questo senso è la «Venere degli stracci» di Pistoletto, prima opera sul riciclo di materiali, che non ha nulla a che vedere con gli scarti usati dal Nouveau Réalisme. Bisogna anche pensare che questi artisti nascono tra la fine degli anni Venti e gli anni Quaranta, vivono il miracolo italiano, che comporta la rapida industrializzazione dell’Italia, e sviluppano la consapevolezza che ci sono limiti allo sviluppo. Ma penso che più che di ecologia dell’ambiente si debba parlare di ecologia del pensiero. Che povertà celebra Luciano Fabro? L’artigiano, l’intaglio del marmo, conoscenze antichissime. Fabro ha creato «Lo Spirato», che viene mostrato ora fuori dall’Italia, in opposizione all’Arte concettuale e alla smaterializzazione dell’opera. In «Lo Spirato» scompare la presunzione del concettuale. Per i poveristi tutto fa parte di un mondo fisico, anche il pensiero. E oggi c’è bisogno di corpo, di esperienza corporea.
Quale impatto hanno quindi avuto i poveristi sulle successive generazioni di artisti?
È una delle correnti italiane del XX secolo che ha avuto un’influenza maggiore, anche all’estero, dopo il Futurismo e prima della Transavanguardia. Joseph Beuys cominciò a fare installazioni solo dopo la nascita all’Arte povera. Ma l’impatto più forte l’ha avuto sugli artisti della seconda metà degli anni Novanta, forse proprio in reazione alla Transavanguardia, e ora sugli artisti degli anni Duemila. Ólafur Elíasson, che espose per la prima volta fuori dalla Scandinavia a Villa Medici a Roma, in una collettiva da me curata, ha sempre riconosciuto di aver usato il ghiaccio e l’acqua per influenza di Calzolari. David Hammons, che prima di scoprire l’Arte povera faceva i body prints, dopo ha cominciato a usare la materia in modo diverso, collaborando anche con Kounellis, che per lui era un mito. Pierre Huyghe ha portato il compostaggio a dOCUMENTA(13) del 2012, con la presenza del cane, ispirandosi anche al cane Malina di Calzolari. Molti artisti oggi si riconoscono nell’Arte povera, che celebra la materia umile, l’energia, la realtà, propone una comprensione diversa della temporalità, circolare, non lineare, e non va contro la tradizione, come facevano i minimalisti.
Che allestimento ha pensato per Parigi?
Quasi al centro della Rotonde ho voluto collocare la prima «Direzione» di Giovanni Anselmo, che appartiene alla collezione Pinault. Un piccolo blocco di formica, posato a terra. Solo chinandosi si vede che contiene una bussola, con l’ago che punta al nord. È un momento di esperienza del reale: l’opera non è solo nella materia, il bordo dell’opera è infinito. Contiene in nuce tutta l’Arte povera: è autentica, ha energia, è viva, reale. Al soffitto, all’ultimo piano della Bourse, ho voluto sospendere l’angelo di «La libertà (H.R.)» di Giulio Paolini, dettaglio che l’artista ha ripreso da «La liberté invitant les artistes à prendre part à la 22e exposition des Indépendants» di Henri Rousseau, che svolge un po’ il ruolo di angelo protettore degli artisti, anche di questa mostra: in un certo senso l’opera contiene l’intero spazio della Bourse. Nelle gallerie ogni artista ha una piccola monografica. Il Passage è una strada con tante vetrine diverse. Una è dedicata ai precursori degli anni Cinquanta, con le opere di Carla Accardi, Lucio Fontana, Alberto Burri, il Gutai. Un’altra ai fotografi, come Claudio Abate, Paolo Mussat Sartor, Elisabetta Catalano e Paolo Pellion di Persano, che hanno immortalato le installazioni dei poveristi. Un’altra è una libreria, con gli autori che leggevano all’epoca, da Herbert Marcuse a Umberto Eco. Ho voluto fare anche un «before» e un «after» Arte povera. Nel «before», figurano oggetti antichi come una testa persiana in lapislazzuli che rinvia ad Anselmo, un vaso canopo prestato dal Louvre che fa pensare a Calzolari e uno degli ultimi dipinti di Giuseppe Pellizza da Volpedo, «I migranti», in relazione con Mario Merz. Tra gli antesignani c’è anche Paul Klee, che fu l’artista preferito di Boetti. Nell’«after», figurano alcune opere, nella maggior parte inedite, di artisti contemporanei, tra cui un italiano, Renato Leotta. Il più giovane è D Harding, artista australiano aborigeno esperto di rock painting. Vorrei anche dire che gli artisti o i loro eredi hanno contribuito con me alla mostra. Anche Giovanni Anselmo, scomparso a dicembre, ha avuto il tempo di disegnare la sua ultima opera, ora esposta per la prima volta.