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Pablo Atchugarry nel suo studio

© Foto Daniele Cortese

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Pablo Atchugarry nel suo studio

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Atchugarry: «Già da piccolo pastrugnavo carta, cartone e masonite»

Lo scultore sudamericano introduce il proprio catalogo generale dei dipinti, una monografia fresca di stampa a cura di Marco Meneguzzo

Francesca Interlenghi

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È un viaggio a ritroso nel tempo, che affonda le radici negli esordi in pittura di Pablo Atchugarry (Montevideo, 1954), il suo nuovissimo Catalogo generale dei dipinti, disegni, ceramiche e incisioni. 1972-2024. Fresca di stampa, la monografia a cura di Marco Meneguzzo dedicata al maggior artista sudamericano vivente (nel 2003 ha rappresentato l’Uruguay alla Biennale di Venezia), che è uno dei più affermati scultori al mondo, racconta da prospettiva altra il maestro che sin da bambino, come confessa lui stesso, «amava pastrugnare carta, cartone e masonite con il colore». 

Lei ha conosciuto la fama internazionale grazie alle sue sculture, ma in realtà è la pittura che l’ha sedotta per prima. Ci racconta in che modo?
Ho avuto la fortuna di nascere in una famiglia che si interessava all’arte, alla letteratura, al teatro, alla cultura in senso lato. Mio padre aveva frequentato il grande pittore Joaquín Torres-García che, influenzato dalle avanguardie europee e dal Costruttivismo in particolare, dopo aver girato tra Barcellona, Parigi e New York, una volta tornato nel suo Paese natale, l’Uruguay, aveva fondato «La Escuela del Sur» (La Scuola del Sud, Ndr). Da quell’intellettuale straordinario che era, mio padre aveva assorbito tantissimo. Non si dedicava all’arte a tempo pieno, ma quando in casa dipingeva io lo stavo a osservare, poi prendevo i suoi colori e mi cimentavo a mia volta. Le prime opere le ho fatte che avevo otto anni. A 11, a mia insaputa, mio padre ne portò due in una mostra collettiva di arte infantile a Montevideo. È iniziata così la mia storia d’artista. Disegno e pittura ci sono sempre stati e c’è stato sempre un nesso molto intimo e molto chiaro con la scultura. Anni dopo, quando ho cominciato a far vedere i miei lavori ai colleghi, tutti ravvisavano una certa tridimensionalità nella mia pittura, la plasticità era già molto evidente

Che significato ha per lei questa pubblicazione nella sua prolifica carriera?
Questa monografia arriva dopo i tre volumi di Electa, a cura di Carlo Pirovano, che presentano la mia opera scultorea completa. Ha per me un grande valore perché documenta una fase della mia vita che adesso si è in qualche modo esaurita. Ogni tanto appare ancora qualche dipinto, ma sembra che dentro ci sia quasi la melanconia per un tempo passato. Per diversi anni invece questi quadri sono stati il mezzo più importante della mia espressione artistica. Mi trovo anche in un momento della mia esistenza in cui sento l’importanza di lasciare una testimonianza. Certo, tutto il lavoro lo è, è un segno dell’artista e del suo passaggio. Ma questo catalogo rivaluta il mio periodo degli inizi, gli anni più duri, perché non conoscevo nessuno e nessuno conosceva me: dovevo affermarmi lavorando. Ricordo che dipingevo a Parigi, una città per me sconosciuta, d’inverno al freddo, fuori da qualche atelier. Tante peripezie, tante avventure, tanti viaggi in treno a trasportare i quadri. C’erano da una parte la giovinezza e dall’altra l’avvicinarmi al mondo dell’arte, con questo che era il mio patrimonio più intimo. Adesso, rivederlo in un libro è come fare un viaggio indietro nel tempo

Vorrebbe lasciare in eredità un suo messaggio agli artisti delle generazioni future?
Che imparino a sognare e a restare legati ai loro sogni. Che aprano metaforicamente le ali per volare più alto possibile, senza aver paura di non essere apprezzati o quotati o inseriti in un sistema. Che si godano in profondità l’arte, che emana come una sorgente dentro di loro

 

Atchugarry. Catalogo generale dei dipinti, disegni, ceramiche e incisioni. 1972-2024
a cura di Marco Meneguzzo, 384 pp., ill., Nomos, Busto Arsizio 2024, € 220

La copertina del volume

Francesca Interlenghi, 15 ottobre 2024 | © Riproduzione riservata

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