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Francesca Interlenghi
Leggi i suoi articoliInaugura il primo aprile a Palazzo Reale di Milano la nuova grande personale di Nico Vascellari (Vittorio Veneto, 1976), intitolata «Pastorale». La mostra, a cura di Sergio Risaliti e visibile sino al primo giugno, si sviluppa nella storica Sala delle Cariatidi e presenta opere recenti e inedite che spaziano tra performance, installazione, scultura, video e suono, dando conto dell’approccio multidisciplinare dell’artista. Attraverso il suo sguardo, Vascellari analizza tematiche legate alla natura e al suo rapporto con l’uomo, a fenomeni ancestrali e rituali, a folklore e tradizioni, contaminandole con una dimensione underground.
Lei torna a Milano dopo una lunga assenza, oltre 15 anni dalla sua performance «I Hear A Shadow» del 2009. Qual è la genesi di questo progetto espositivo che apre l’art week milanese?
La mostra si è manifestata nel momento in cui finalmente, molto tempo dopo aver accettato l’invito di Palazzo Reale, ho potuto camminare nella Sala delle Cariatidi completamente vuota in totale solitudine, inalandone l’odore e ascoltandone il riverbero. L’eco del passato trafigge il presente mentre avanza rapidamente verso il futuro. Qual è la mia posizione? A che cosa resisto e in che modo lo faccio? Che fare?
Il titolo «Pastorale» a che cosa allude?
Evoca un doppio significato: da un lato, il riferimento a una dimensione arcaica, quasi rituale, legata alla natura e ai suoi ritmi primordiali; dall’altro, un’allusione più ampia a un paesaggio interiore, una condizione dell’animo umano sospesa tra contemplazione e tensione.
Come ha gestito la relazione con lo spazio espositivo e come questo ha orientato il suo lavoro?
La Sala delle Cariatidi è un luogo che porta inscritte nella propria pelle le tracce della distruzione e della rinascita. La sua architettura segnata dalle ferite della guerra non è un fondale neutro, ma una materia viva con cui instaurare un dialogo attivo. Ho scelto di lavorare con lo spazio senza sovrastarlo, lasciando che la sua memoria emergesse attraverso le opere, che agiscono come catalizzatori di una tensione già presente, amplificandola e proiettandola in una dimensione attuale.

Nico Vascellari, «Pastorale», 2025. Courtesy Studio Nico Vascellari
Quasi totalmente distrutta durante il bombardamento di Milano del 1943, e poi risorta dalla sue stesse ceneri, la Sala delle Cariatidi è espressione, al pari del suo lavoro, di stratificazioni di significati e di una continua dialettica degli opposti che cercano una ricomposizione. Caos e Cosmo, Eros e Thanatos, energia e fragilità, entusiasmo e dolore: il punto di incontro tra questi due scenari è quello che dà origine all’intensità e alla specificità del suo linguaggio. Ce ne può parlare?
Il mio lavoro si sviluppa attorno a queste polarità, ma non nel tentativo di risolverle o conciliarle in un equilibrio statico. Piuttosto, mi interessa il modo in cui esse convivono in una continua tensione, generando nuove possibilità di lettura. La mia pratica si nutre del conflitto, della frizione tra elementi apparentemente inconciliabili: la forza e la vulnerabilità, l’istinto e la riflessione, la materia e il suono. In questa tensione, ogni opera diventa un territorio di attrito, un luogo in cui le energie opposte si scontrano e si trasformano. La Sala delle Cariatidi, con il suo passato di distruzione e resilienza, amplifica questa dinamica, creando un contesto in cui l’opera non è mai autonoma, ma si innesta in una narrazione più ampia, fatta di memoria, assenza e presenza.
Se è vero che la sua ricerca non tende a un contesto di armonia, è altrettanto vero che nemmeno il bello, considerato in termini di esito formale, le interessa. Qual è allora lo scopo del suo lavoro?
Non cerco l’armonia come risultato, ma come tensione costante tra forze che si respingono e si attraggono. Il mio lavoro non vuole rassicurare, non cerca di offrire risposte né di allinearsi a una concezione tradizionale della bellezza. L’arte, per me, è un atto di resistenza contro l’inerzia del già noto, un dispositivo che mette in crisi, che apre spazi di riflessione e di esperienza. Più che ricucire una dicotomia, mi interessa esporla nella sua essenza più cruda, lasciando che sia lo spettatore a confrontarsi con il suo peso e le sue implicazioni.
La mostra evoca l’esposizione nel 1953, proprio in questa Sala, del capolavoro «Guernica» di Pablo Picasso. Mirabile esempio della capacità di un artista di codificare informazioni e sensazioni nella materia, restituendo le istanze, in quel caso tragiche, della sua epoca. Quale ruolo ritiene l’arte possa svolgere al cospetto del male, anzi, della «banalità del male», come la definisce Hannah Arendt?
L’arte non può neutralizzare il male, né può pretendere di offrire una soluzione etica alla sua esistenza. Ma può renderlo percepibile, tangibile, ineludibile. L’arte è un campo di battaglia in cui le tensioni del mondo trovano una forma, una superficie su cui imprimersi e da cui riverberare. Se c’è un ruolo che l’arte può svolgere, è quello di creare un cortocircuito nella percezione del reale, spingendo chi la attraversa a interrogarsi, a sentire il peso delle cose senza filtri, senza attenuanti.
Lei arriva dalla scena della musica underground e, specialmente agli inizi, il sistema dell’arte non l’ha accolta con benevolenza, sebbene nel tempo sia poi riuscito a far emergere la sua voce perfino nelle istituzioni museali. In accordo con la sua volontà di mettere continuamente in questione schemi e regole, si potrebbe avvicinare la sua figura a quella di un antropologo, prendo qui a prestito Bourriaud, per l’incessante «va e vieni» che l’ha sempre condotta dal terreno all’atelier, dalla realtà alla sua traduzione in forme. Potremmo forse concludere così?
È indubbio, una parte del sistema dell’arte mi è stata sicuramente avversa. Al tempo ed anche ora. Mettiamola così, è un’avversità che mi lusinga e motiva. È però pur sempre vero che l’invito alla Biennale di Venezia è arrivato quattro anni dopo che ho iniziato il mio percorso. L’idea dell’antropologo è senza ombra di dubbio suggestiva, ma un grande privilegio, ed anche uno dei motivi per il quale ho deciso di dedicarmi a quello che faccio, è che posso evitare di definirmi o classificarmi. In altre parole, questa per me non è carriera ma devozione assoluta e un artista si definisce non tanto per quello che fa ma sopratutto per ciò che rifiuta di fare.

Nico Vascellari, «Pastorale», 2025. Courtesy Studio Nico Vascellari

Nico Vascellari, «Pastorale», 2025. Courtesy Studio Nico Vascellari