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Simone Facchinetti
Leggi i suoi articoliLe case d’aste si dividono almeno in 3 categorie. Ci sono quelle che selezionano il materiale migliore, sforzandosi di scoprire qualcosa di nuovo o poco visto sul mercato. Corrispondono al luogo ideale per il collezionista dubbioso e bisognoso di garanzie. Poi ci sono quelle che non seguono alcun metodo e mettono all’incanto tutto ciò che bussa alla loro porta. Ovviamente queste sono le predilette dai cercatori perché possono favorire qualche affare inaspettato. Infine, ce ne sono alcune che vagliano la merce pensando unicamente al profitto. Non ci sarebbe nulla di male se non fosse che mettono in atto strategie ciniche e prive di scrupoli.
Una delle tecniche più deplorevoli è quella di mescolare la merce buona a quella cattiva, le mele sane alle mele marce. Proprio perché è una strategia vecchia come il mondo continua a produrre i suoi frutti avvelenati. Si fa più o meno così: si raccolgono opere sicure, discretamente presentabili e dotate di un minimo di letteratura. Non sono quasi mai oggetti vergini, al contrario provengono dal mercato secondario dove non hanno incontrato alcun interesse, vuoi per lo stato di conservazione, vuoi per il soggetto, vuoi per la modestia esecutiva. Il casting prosegue con la ricerca di derivazioni e copie tratte da prototipi celebri. Questo snodo è fondamentale perché chi non sa leggere il quadro troverà qualche vago appiglio bibliografico al quale aggrapparsi. In genere nessun esperto della materia è stato consultato in proposito, al contrario si naviga al buio. La luce sarà naturalmente irradiata dalla superba ignoranza dello sprovveduto che si appresta ad acquistare una copia tarda e insignificante con un’intestazione sibillina che rimanda a un seguace o a una scuola.
L’asta, a Monaco di Baviera, da Hampel lo scorso 25 settembre era da manuale. Andrebbe studiata meticolosamente per estrarre la ricetta del veleno. Vorrei soffermarmi su un unico caso, il dipinto riferito alla «bottega di Bernardo Cavallino» («Giuditta con la testa di Oloferne»), stimato 25mila-35mila euro. Nella scheda si diceva che fosse siglato «BC», un’informazione ambigua che confligge con quella fornita nell’intestazione del quadro («bottega di»). Nella scheda si affermava che fossero note altre versioni del quadro, tra cui quella del Nationalmuseum di Stoccolma. La pura e semplice verità è che il dipinto svedese è un originale siglato dal pittore napoletano mentre l’altro è una brutta copia. La bottega non c’entra nulla, di certo nullo è il suo valore.
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