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Samantha Ozer
Leggi i suoi articoliLa manifestazione fisica del linguaggio nel corpo e nell’ambiente è il grande tema della XXIII Biennale d’Arte di Paiz in Guatemala. Intitolata «Bebí palabras sumergidas en sueños (Ho bevuto parole immerse nei sogni)», la più grande mostra d’arte contemporanea dell’America Centrale, come si autodefinisce, riunisce 30 artisti e collettivi che esplorano traduzioni e interpretazioni di sogni, territori, corpi e movimento. Il titolo deriva da un verso di «Nací mujer (sono nata donna)», una poesia della scrittrice guatemalteca Maya Cú.
Progetto femminista e intersezionale, la mostra mette in primo piano la relazione tra i corpi vulnerabili, spesso marginalizzati, e la terra. Molte opere collegano lingua, razza e classe attraverso diversi periodi di migrazione forzata legati a condizioni di schiavitù, attacchi contro le comunità indigene e varie rivendicazioni territoriali. Oltre all’esame artistico e teorico di queste forme di violenza, diverse opere propongono strategie e pratiche per curare i traumi causati dalla violenza di genere e dall’estrazione ecologica.
La biennale si svolge a Città del Guatemala e Antigua, in cinque sedi: il Centro Cultural de España, il Centro Cultural Municipal Álvaro Arzú Irigoyen, il Portal de la Sexta, il Centro de Formación de la Cooperación Española e La Nueva Fábrica. Per i co-organizzatori, la curatrice indipendente Francine Birbragher-Rozencwaig e il curatore capo del Museo de Arte Contemporeaño Panama Juan Canela, è un’occasione per presentare una «polifonia di voci». Un approccio esemplificato dalla collaborazione con l’educatrice Esperanza de León alla creazione di un team di consulenza composto dagli artisti Minia Biabiany, Marilyn Boror Bor, Duen Neka’hen Sacchi e Juana Valdés, le cui opere sono presenti in mostra. Sono inclusi anche i lavori di collettivi indigeni, di artisti selezionati con un bando aperto e di cinque artiste storiche: Margarita Azurdia, Ana Mendieta, Fina Miralles, María Thereza Negreiros e Cecilia Vicuña.

Marilyn Boror Bor, El agua se nos hizo concreto (2022-23), al Centro Cultural de España di Città del Guatemala per la XXIII Biennale d'Arte Paiz Per gentile concessione di Sergio Muñoz e Fundación Paiz
Le opere di queste cinque artiste rivoluzionarie degli anni ’60 e ’70 hanno aperto nuovi canali per il pensiero femminista sul corpi e le ecologie, fornendo i vari elementi del quadro concettuale della Biennale nel suo complesso. In un periodo in cui gli esponenti della Land art, prevalentemente bianchi e maschi, stavano guadagnando notorietà per interventi permanenti su larga scala nel paesaggio, queste artiste hanno adottato un approccio specificamente femminile e personale. Nella serie di fotografie «L’arbre» (1975) per esempio, Miralles, artista concettuale spagnola, immerge il suo corpo nel suolo della sua nativa Catalogna per sottolineare poeticamente il legame tra gli esseri umani e la terra, entrambi tipi di materia organica.
Per la compianta artista cubano-americana Mendieta, come affermò lei stessa l’arte era un modo «per diventare un tutt’uno con la terra, per diventare un’estensione della natura e perché la natura diventasse un’estensione del corpo», oltre che un mezzo per ristabilire un legame con Cuba, suo luogo di nascita. Nella serie di fotografie «Silueta» (1970) e nel video «Corazón de Roca con Sangre» (1975), entrambi in mostra, Mendieta traccia il profilo della sua silhouette sulla terra, tra rocce, fango, acqua, sangue e fiori.
Questa comunione tra il corpo umano e la terra, insieme alle preoccupazioni per l’appartenenza e la trasformazione, persiste oggi nel lavoro del Colectivo Ixqcrear, un collettivo guatemalteco creato da donne maya Q’eqchi’ e composto dalle sorelle Ixmukane e Ixmayab’ Quib Caal e dalla zia Elena Caal Hub. Nel loro video «La fuerza que emancipa al cuerpo (La forza che emancipa il corpo)» (2022), una donna dorme nell’argilla, personificando pepem ixq (donna farfalla), lo spirito di tutte le donne sottomesse. Pepem ixq viene risvegliata dalle voci delle donne emancipate e successivamente sorge, si veste e incontra le donne che l’hanno sostenuta, un gruppo intergenerazionale ispirato dalla madre e dalla nonna dei membri del collettivo, sopravvissute alla violenza di genere e coloniale.
Il testo «Mi abuela Juana (Da mia nonna Juana)», dell’artista indigena Kaqchikel Maya Marilyn Boror Bor e della scrittrice Jimena Pons Ganddini, evidenzia una condivisione generazionale del sapere: «Qualcosa nel gesto di mia nonna e nel modo in cui il fuoco la rispetta mi dà l’impressione che sia stata forgiata dalla terra e dal fuoco; per questo porta le mappe sulla pelle, perché è guida, memoria e territorio puro».
L’artista panamense Risseth Yangüez Singh esplora il concetto di mappatura intergenerazionale in «Panamáfrica» (2023), un’opera tessile realizzata in collaborazione con la nonna che mostra la mappa di Panama. Creata con capelli intrecciati e conchiglie, l’opera segna i luoghi con nomi africani e le loro derivazioni nel territorio. L’opera è presentata con la video-performance «Hacerme un capullo» (2023), in cui Singh con l’aiuto di amici intimi si intreccia in un bozzolo di capelli come atto comunitario e meditativo di cura, utilizzando un materiale organico e politicizzato. I curatori sottolineano la qualità musicale di questo gesto spiegando che Singh «mette in discussione la sua esperienza di donna nera, tracciando nuove linee, come spartiti tra i suoi capelli».

Carolina Alvarado, Comen poemas mojados en leche, uno dos tres gatos (2023) at the Centro Cultural Municipal Álvaro Arzú Irigoyen parte della XXIII Paiz Art Biennial Cortesia di Sergio Muñoz and Fundación Paiz
Nell’installazione «Comen poemas mojados en leche, uno dos tres gatos» (2023) dell’artista guatemalteca Carolina Alvarado, le voci si manifestano. Lavorando con le donne di Casa Refugiados, un’organizzazione che sostiene i rifugiati a Città del Messico, ha costruito un albero bianco di rami con elementi ricamati che scendono come radici. Ispirata all’omonimo poema recitato in spagnolo, inglese, francese e quiché (la lingua dei Maya Kʼicheʼ), l’opera collega la poesia recente con elementi della visione del mondo Maya presenti nel «Popol Vuh», un testo sacro fondamentale per il popolo Kʼicheʼ: è un modo per onorare la memoria di scrittori e poeti assassinati durante la guerra civile guatemalteca (1960-96). Per quanto l’installazione di Alvarado riguardi lo straniamento e la violenza che può essere fatta a un corpo da parte di uno Stato e di una società, essa è guidata dalla convinzione di una connettività universale, un «ritmo» che i curatori identificano come il ritmo dell’intera mostra.
In occasione della conferenza stampa di apertura, Birbragher-Rozencwaig e Canela hanno presentato la loro biennale come un invito alla discussione e alla festa, una provocazione sostenuta dalla cerimonia inaugurale organizzata dal Colectivo Tz’aqol. Guidato da Victor Manuel Barillas e Marta Guadalupe Tuyuc Us, il collettivo organizza laboratori di teatro e di guarigione partendo dalla prospettiva di una visione del mondo tipicamente maya. «Solik/Desatar (Solik/Tie off)» (2022) è un monologo che racconta la vita quotidiana di una giovane ragazza, lo stupro e i successivi cicli di traumi. Come forma di guarigione comunitaria, i partecipanti sono stati invitati a partecipare attivamente alla cerimonia e a gettare candele nel fuoco, a unire le mani, ad appoggiarsi alle spalle dei compagni e degli sconosciuti e infine a ballare. In questa presentazione, come in molte altre opere della XXIII Biennale d’Arte di Paiz, i gesti tattili e corporei operano come linguaggi tra e oltre le parole.
La XXIII Biennale d’Arte di Paiz prosegue fino al 30 luglio in varie sedi a Città del Guatemala e Antigua. Le presentazioni al Centro Cultural de España e al Centro de Formación de la Cooperación Española di Città del Guatemala e a La Nueva Fábrica di Antigua saranno invece aperte fino al 30 settembre.

La cerimonia di guarigione del Colectivo Tz'aqol ad Antigua, uno degli eventi di apertura della XXIII Biennale d'Arte di Paiz Cortesia di Sergio Muñoz e Fundación Paiz.