Micaela Deiana
Leggi i suoi articoliNel 1964 due ricercatori australiani, Isabel Joy Bear e Richard G.Thomas, coniano il termine «petricore» con cui indicare l’odore della terra secca dopo la pioggia. Il profumo nasce dall’essenza che trasuda da alcune piante in periodo di siccità e che viene assorbita dall’argilla e dalle rocce. Con la pioggia, all’essenza si unisce la geosmina, prodotta da alcune specie batteriche, e il combinato dalla terra passa all’atmosfera in forma di nanoparticelle che, con il vento, si disperdono nell’aria. È questo l’odore terroso che ha accompagnato la mia visita alla mostra ed è l’odore che mi accompagna ogni volta che apro il catalogo.
Parlare di pioggia in una terra arida come l’Arabia Saudita ha un valore simbolico ancora più alto. La direttrice artistica Ute Meta Bauer ha scelto «After rain» quale titolo per descrivere questa seconda edizione della Biennale di Diriyah, come metafora (e auspicio) di un’esperienza di nutrimento per la vita.
Il radicamento al territorio va oltre la metafora dell’acqua e, trasversalmente, richiama la storia e la cultura Saudi. Bauer, insieme a un compatto team composto da Wejdan Reda, Rose Lejeune, Anca Rujoiu, Ana Salazar e Rahul Gudipudi, ha coinvolto 100 fra artisti e collettivi del Golfo e dell’Asia orientale, e richiama così lo storico legame fra aree tanto lontane, poli di un costante interscambio sin dai tempi della Via della Seta, di cui la regione era uno dei crocevia, proseguito con i pellegrinaggi delle comunità asiatiche a Medina e Mecca. L’accoglienza dello straniero è radicata nella cultura locale così come lo sono l’attitudine allo storytelling e l’oralità come mezzo privilegiato per lo scambio intergenerazionale. Tutte caratteristiche che ritroviamo nella cornice curatoriale che ha selezionato artisti di tre generazioni, senza temere di accostare pionieri dell’avanguardia a nomi emergenti, e nell’attenzione alle pratiche artistiche dialogiche e di lungo sviluppo.
Veniamo allo spazio espositivo. Il percorso si articola in sei padiglioni su un’area di quasi 13mila metri quadrati: un «parcour multisensoriale», per usare le parole della curatrice, che parla dell’acqua, di un rifugio che protegga e di un raccolto che nutra come precondizioni per la vita, animale prima ancora che umana. Da questa metafora di grande concretezza si diramano le riflessioni sull’ecologia, sul rapporto con la natura e sulla condivisione comunitaria che nasce dall’incontro. A mediare il dialogo tra opera e fruitore, un meticoloso impianto scenografico che riconfigura i capannoni industriali del distretto Jax.
Il primo spazio è dedicato alla performatività e alle forme di teatralità che strutturano ogni interazione sociale e politica. Accolgono il visitatore le marionette di Dhali Al Mamoon, elaborazione del trauma collettivo mediato dalle memorie dell’infanzia, chiarendo sin dai primi passi come la critica politica possa essere ugualmente efficace vestita di sensualità e gioco. A fianco, il circo candido creato da Taus Makhacheva (la cui metafora non richiede spiegazioni) si oppone cromaticamente alla black box che ospita un programma permanente di moving images, che integra così il medium filmico nel percorso della mostra.
Saliamo allo spazio superiore, dedicato alle ricerche che si sviluppano sul lungo periodo, in una serie di tavoli consultabili abbracciati da un sensuale velluto rosa. Le pratiche discorsive e multidisciplinari sono alla portata degli occhi, delle mani e delle orecchie dei visitatori, invitati a esplorare gli archivi (fra cui quello del libanese Tarik Atoui, con le sue collaborazioni sonore che dal 2022 lo vedono impegnato con le comunità nomadiche dell’area Mena). Lo spazio è accogliente e non intimidatorio, e sono tanti i bambini che lo esplorano e lo fanno proprio.
Successivamente si entra in un candido open space dalle luci abbacinate, con le ricerche più impegnate sul tema dell’ecologia interconnessa alle questioni coloniali e all’estrattivismo, a cui segue l’ambiente dedicato all’eredità artistica delle ricerche moderniste. Qui, abbracciate da una luce soffusa, le opere dei pioneri (diverse quelle qui esposte per la prima volta), come Absulrahman Al-Soliman e Safeya Binzagr, entrambi Saudi, Rasheed Araeen e Lala Rukh.
Il padiglione che segue, dedicato all’acqua, si distingue per la delicatezza poetica. Le montagne in lapislazzuli che sfruttano la tecnica delle miniature di Hamra Abbas, la mineralità che si fa scultura nell’installazione di Dala Nasser, il concerto interattivo di vasi di vetro di Suzann Victor, i bambini che esplorano la confluenza fra Tigri ed Eufrate nel film di Alia Farid. Il dialogo è soave, eppure non edulcora la consapevolezza dei tempi coloniali in cui viviamo.
In questa Biennale l’equilibrio fra concettuale e sensorialità è sempre ben bilanciato, e si esprime pienamente nel padiglione dedicato alla materialità e a come questa possa essere lo spunto da cui nasce un lavoro. È in questa sezione che trova posto Rossella Biscotti, i cui tappeti in gomma, «The Buru Quartet», articolano le riflessioni sulla storia coloniale indonesiana attraverso le pratiche artigianali prettamente femminili del batik. Fra gli altri lavori della sezione, «Let Me Heal Your Wounds» di Dana Awartani, artista Saudi che troveremo anche nella prossima Biennale di Venezia. In questo caso l’artista ci porta in Kerala, dove ha studiato nei laboratori di lavorazione della seta per creare quest’installazione che, con un gioco di sovrapposizioni, traccia una mappa del patrimonio culturale distrutto dal 2010 fra Nord Africa e Medio Oriente.
Chiude infine il percorso interno il padiglione dedicato allo Spazio e al Tempo, in cui emerge la grande installazione del singaporiano Tang Da Wu, pioniere dell’arte dell’Est Asia, con una mastodontica macchina che vuole essere veicolo del progresso, ma incorpora l’attitudine alla poesia di chi già intravede i pericoli di questa corsa forsennata.
Intorno agli hangar una moltitudine di spazi di incontro, con installazioni artistiche che abbracciano un carattere di funzionalità, come le ombreggiature offerte da «Abundance & Scarcity» di Azra Akšamija, le tavolate conviviali di Lucy + Jorge Orta, e il giardino di Britto Art Trust (collettivo Bangladese che già avevamo apprezzato nella scorsa Documenta).
È un momento storico in cui il Saudi sembra essere il luogo artistico in cui trovano casa grandi progetti impensabili fino a pochi anni fa, fra nuovi musei che nascono e fondazioni, come quella di Diriyah, che si impongono sulla scena globale. Insieme ai riflettori, ovviamente, non mancano i commenti scettici di chi ha una rigida idea della nazione e della sua società, spesso senza mai averci messo piede. Eventi come quello di «After Rain» offrono preziose occasioni di scoperta per chi conosce ancora troppo poco della cultura araba, storica e contemporanea. Perdere l’occasione di assistere a questo grande processo di trasformazione condivisa che sta attraversando il Paese, solo perché non aperti a cambiare i nostri preconcetti, sarebbe un grande peccato, oltre che segno di ingenua miopia. C’è tempo fino al 24 maggio.
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«After Rain» è la Biennale di Diriyah
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