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Bracha L. Ettinger. Courtesy l’artista

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Bracha L. Ettinger. Courtesy l’artista

Bracha Ettinger: «Nell’arte l’estetica è inseparabile dall’etica»

Radicants, a Parigi, dedica una mostra all’artista e psicanalista israeliana, traduttrice dei testi di Jacques Lacan in ebraico. Nicolas Bourriaud, che ha scoperto il suo lavoro alla fine degli anni Ottanta, dice di lei che «inventa una pittura storica che non evoca mai il passato»

Stéphane Renault

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Lei ha partecipato a «Face à l’Histoire (1933-1996)» e «elles@centrepompidou» a Parigi. Radicants presenta la sua prima mostra personale nella capitale dopo 22 anni. Come l’avete concepita?
Espongo dipinti, disegni e quaderni in francese, inglese ed ebraico. Nicolas Bourriaud è rimasto attratto dal mio lavoro molto presto, allora come oggi pensa che sia diverso da tutto ciò a cui siamo abituati. Aveva scritto un testo per il catalogo della mia mostra personale al Museo di Calais nel 1988 e da allora ha seguito la mia pratica, scrivendo un altro importante testo per la mia mostra a San Pietroburgo del 2013. Ora mi ha chiesto di realizzare la mostra inaugurale del suo nuovo spazio parigino, per la quale ha coinvolto il curatore Noam Segal, un israeliano che vive a New York. Nel mio caso, la pittura è un processo molto lungo. È uno strato dopo l’altro, in trasparenza, da anni. Non lavoro per un progetto, per una mostra, in un tempo e un luogo specifico. È il dipinto a decidere quando è finito. Ho scelto di presentare opere realizzate negli ultimi cinque anni nel mio studio di Tel Aviv, selezionando anche taccuini e disegni, che accompagnano la mia pittura ma sono opere d’arte a sé stanti.

La mostra presenta diverse sfaccettature del suo lavoro: pittura, disegno, scrittura. Li vede come un tutt’uno?
Secondo me fanno tutti parte dello stesso universo, sono paralleli, in continuità. I quaderni sono parte dell’opera totale, i disegni partono dagli stessi strati iniziali che richiedono di essere elaborati, soggetti che mi accompagnano da tutta la vita. L’astrazione nell’arte e nel pensiero può essere approfondita a partire da una goccia d’acqua, da pochissimi motivi. Può evolvere, cancellare, rivelare, coprire e scoprire trasformando luce, ombra, colore, macchie, forme. Prima di tutto, volevo dipingere. Metto nelle mie opere ciò che passa attraverso il mio corpo, la mia psiche, la mia anima, la mia mente. Già nel 1985 avevo capito che la mia pittura rifletteva il mio rapporto con il mondo e che mi sarebbero serviti anni per elaborarlo e metterlo per iscritto. Il lavoro di comprensione teorica è stato fatto in seguito, dopo la pratica artistica, poi in parallelo e tuttora è in corso. Dipingo per diverse ore al giorno. La notte è dedicata alla scrittura. In entrambi i casi a volte soffro, a volte provo gioia.

Come teorica femminista, lei ha inventato e sviluppato la nozione di «spazio matriciale» («matriciel» o «matrixiel», Ndr).
Nei miei taccuini intreccio il linguaggio poetico e filosofico, basandomi sulle mie opere pittoriche: ad esempio, tracce immaginarie che scompaiono, materiale che è sia reale che simbolico, presente e in dissolvenza. La teoria è una parte distinta del mio lavoro, pertanto conoscere la mia ricerca non è un prerequisito per comprendere la mia pittura; si tratta di un’altra dimensione. Basta osservare. Ho sviluppato il concetto di «spazio matriciale» nel 1985. Si tratta di coemergenza, di «com-passione» tra l’artista e la materia, il soggetto e l’altro soggetto, il soggetto e l’oggetto. Nel mio approccio è essenziale l’affetto, tutto ciò che sentiamo intorno a noi quando la nostra sensibilità è impegnata, e di cui dobbiamo prenderci cura. È l’idea di un tessuto, una corda sensibile dentro di noi, che vibra e ci connette a una catena musicale condivisa, uno spazio fluido, un in-between che riecheggia il femminile arcaico. È il mio modo di ripensare il nostro ambiente e l’essere umano come «essere verso la nascita», erotico e materno al tempo stesso, in un mondo che ha ereditato una catastrofe, che cerca di dare un senso al valore dell’umanità dopo il trauma e dopo la perdita di fiducia nell’umano.

Il XXI secolo sarà «femminile-matriciale», o non sarà. Ho sviluppato processi artistici che riflettono diversi aspetti dei tempi e degli spazi matriciali. La mia pittura è fatta di trasparenze tra diversi media. Pigmenti e ceneri, parole e linee, immagini trasmesse e inventate: gli elementi sono indefiniti, eppure queste sfumature creano uno spazio che suggerisce una profondità non prospettica, sfidando l’idea modernista di superficie. I miei quadri sono dipinti a olio, ma si sente che si muovono come un ologramma. Nello «spazio matrice», le nozioni di femminile e materno, ma anche di soggetto, sessualità, Eros e Thanatos e il passaggio dalla «capacità di rispondere» («réponse-abilitée») alla «responsabilità» assumono un nuovo significato. Volevo creare uno spazio ai margini, rompendo con una visione fallica. Nell’arte l’estetica è per me inseparabile dall’etica. La meraviglia porta alle idee.

La sua pittura, ossessionata dalla Shoah, è anche «una pittura di storia che non evoca mai il passato», per usare le parole di Nicolas Bourriaud.
Lo spiega lui stesso nel testo in catalogo di questa mostra: «Non dipinge né l’Olocausto né la guerra, ma i traumi che hanno generato. Dipinge sia il presente della storia che il processo di cancellazione della memoria [...], è uno studio generale sullo shock. Il trauma è una ferita subita dall’organismo e il traumatismo è la traccia che ne deriva. Dipinge quindi immagini-conseguenze, sfocate, vagamente irreali, come quelle memorie schermo che si manifestano in un trattamento psicoanalitico. […] Bracha L. Ettinger raffigura così la graduale dissoluzione delle immagini mentali che ci legano al passato, la memoria che svanisce».

I miei dipinti della serie «Euridice», i primi dei quali risalgono a una quarantina di anni fa, hanno come immagine principale le donne e i loro bambini denudati prima di essere fucilati, in Ucraina durante la Seconda guerra mondiale. All’epoca si seguiva il consiglio di Theodor W. Adorno, per cui esisteva un tabù contro l’evocazione di tali immagini. L’intero commento di Claude Lanzmann sull’estetica del suo film «Shoah» indica questo tabù. Partendo dal silenzio dei miei genitori sul destino dei miei antenati, ovvero i loro stessi genitori, e affrontando questi fantasmi nel momento presente per cogliere la diffrazione delle loro tracce, lavoro ogni giorno creando bellezza senza occultare questa violenza, tenendone conto per trasformare il futuro.

Utilizzo quindi le immagini che mi ossessionano come materiale primario. Ma sono immagini già trasformate, fluttuanti, tracce lavorate con certe tecniche di mia invenzione ancor prima di iniziare a dipingere, così che si trasformino in polvere; appena le tocco, spariscono. È il mio lavoro, quindi, a farle riapparire. Durante il processo artistico emerge un singolare rapporto con l’inconscio attraverso il languore, l’oblio, la diffrazione. Di chi è la memoria in gioco quando ci si appropria di queste immagini? Non è l’espressione a fare l’arte. Il lavoro astratto dell’inconscio profondo costruisce un «evento-incontro» in cui riunirsi e anche testimoniare.

Negli ultimi anni ho coniato il termine «Carriance» per sintetizzare l’idea del prendersi cura. Questa è anche una delle funzioni della pittura, oltre che della psicoanalisi. I miei dipinti sono abitati da processi di rinascita, che si tratti della figura di Euridice o dell’Angelo, in riferimento alla fascinazione di Walter Benjamin per l’«Angelus Novus» di Paul Klee. Credo profondamente che l’arte visiva, come la poesia, permetta queste «co-scoperte», nel senso di scoprire ma anche di «ri-scoprire» insieme, di formulare un linguaggio musicale che lasci spazio alla sensibilità per superare il trauma. Non si tratta di tornare indietro nel tempo, ma di immaginare un universo costruito diversamente con questa esperienza, nel presente, senza cedere all’invasione di immagini che ci bombardano continuamente e ci portano al nichilismo.

È più difficile creare qualcosa di nuovo, rinnovare una tecnica antica come la pittura a olio, dove sembra che tutto sia già stato fatto, che utilizzare le ultime tecnologie. Esporre il mio lavoro in un nuovo spazio come Radicants è una sorta di dichiarazione d’intenti, un’affermazione che la pratica dell’arte è essenziale per aprire possibilità simboliche, teoriche ed etiche. Mi viene in mente la poesia «Radia, Matrix» di Paul Celan. Mi sembra che Radicants aspiri a esporre artisti il cui lavoro, in qualsiasi formato, rinnovi la nostra mente aprendoci a possibilità inaspettate; a mostrare i legami tra arte e teoria; a dimostrare che gli approcci artistici possono cambiare il modo in cui pensiamo alle relazioni tra esseri ed elementi e tra estetica, etica e politica.
 

«Eurydice n°60» (2019-2022) di Bracha L. Ettinger

«Eurydice n°63» (2019-2022) di Bracha L. Ettinger

Stéphane Renault, 21 settembre 2022 | © Riproduzione riservata

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