Il 17 settembre la designer Maria Calderara apre le porte del suo spazio milanese di via Lazzaretto 15 per la presentazione della collezione «SS25 #Touch», frutto dell’incontro con la poetica di Piero Manzoni (Soncino, 1933-Milano, 1963). L’esposizione dei capi e gioielli più significativi della nuova stagione si arricchisce di una mostra, visibile sino al primo ottobre, costituita di un nucleo di quadri dell’artista per un progetto curatoriale realizzato in stretta collaborazione con Rosalia Pasqualino di Marineo, direttrice della Fondazione Piero Manzoni.
Forte della sua passione come collezionista, Calderara non è nuova a incursioni in territori «altri» e alla pratica di alimentare il rapporto tra moda e arte, indagato in molteplici direzioni già all’inizio del Novecento con gli artisti dell’Art Nouveau e delle Avanguardie storiche, ma ancora oggi efficace a contrastare la crisi di un’industria che soffre l’andamento incerto dell’economia globale, che è a corto di idee e deve fare i conti con l’ampio cambiamento culturale in corso che influenza le scelte di consumo.
Dopo le collezioni ispirate da Gianni Pettena, Luca Maria Patella, Antonio Scaccabarozzi ed Eugenio Tibaldi, la stilista instaura in questa occasione un dialogo sottile con un autore che, abdicando ogni limite, ha inseguito la libertà sopra ogni altra cosa. Il terreno comune su cui si sviluppa questo scambio creativo è la vocazione alla sperimentazione e l’attitudine alla riduzione: denudamento della superficie in Manzoni, azzeramento dell’artificio cosmetico in Calderara, le cui silhouette organiche e strutturate allo stesso tempo, dentro le quali sono custodite le forme del corpo, ridefiniscono il concetto di seduzione connotandolo come fatto intellettuale.
Reinterpretando i motivi estetici dell’artista, traducendoli in strutture da indossare con materiali in contrasto e dettagli preziosi, la designer converte, tramite l’atto del vestirsi, il gesto artistico in rito del quotidiano. Ne fa esperienza del vivere, testimonianza concreta. In pieno accodo con le intenzioni di Manzoni a cui non interessava che la sua arte fosse bella o brutta. Gli importava soltanto che fosse vera. Come in un libero esercizio di trasposizione, le grinze degli «Achromes», la serie di quadri senza colore iniziata nel 1957 e proseguita nel tempo con i materiali più disparati, prendono vita in un abito in tela paracadute; la lana di vetro si trasforma in applicazioni di pelliccia sintetica; il polistirolo assume la forma di sfere cucite con filo di nylon invisibile sui vestiti; e le rosette di pane ricoperte in caolino diventano stampe applicate come motivo sugli abiti. Ma oggetto di rilettura non sono solo i celebri monocromi. C’è l’impronta di Manzoni timbrata a mano su gonne, camicie e canotte, o i gioielli che evocano le uova con l’impronta digitale, presentate nel 1960 nella protoperformance «Consumazione dell’arte, dinamica del pubblico, divorare l’arte» presso la galleria Azimut. E non manca la firma stampata ad hoc su ogni pantalone, richiamo esplicito all’azione del 1961 intitolata «Sculture viventi» durante la quale l’artista apponeva la propria firma sul corpo di modelle in carne ed ossa, per farne un’opera d’arte vivente.