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John Eskenazi
Leggi i suoi articoliVorrei qui illustrare l’incontro di due culture tra loro lontanissime nel tempo e nello spazio. Parlerò di quanto una abbia affascinato l’altra, di quanto l’estetica dell’una abbia creato nell’altra una nuova concezione figurativa e devozionale che determinerà l’immagine del Buddha in tutto il mondo asiatico e che rimarrà immutata attraverso i secoli. Due figli di re ignari, Buddha Sakyamuni e Alessandro Magno, hanno contribuito a questa grande invenzione in un piccolo territorio chiamato Gandhara nell’attuale Pakistan nord-occidentale.
Buddha Sakyamuni nasce circa nel VI secolo a.C. figlio di un sovrano/guerriero del clan dei Sakya il cui regno si trovava sul confine tra il Nepal e l’India. Dopo un’adolescenza «superprotetta», decide di seguire alcuni mistici itineranti e intraprende una via di privazione estrema. Dopo sei anni, oramai vicino alla morte, sceglie una via del tutto personale di ascetismo moderato, la «Via di Mezzo» basata su una disciplina fisica, mentale e spirituale, sull’introspezione e sulla consapevolezza della propria essenza. Appena trentenne raggiunge l’Illuminazione ovvero la rivelazione della percezione del Vero e passa i 45 anni che gli rimangono a diffondere la propria filosofia di vita che si basa sulla conoscenza delle fondamentali quattro nobili verità: l’accettazione della sofferenza come condizione della realtà umana, la comprensione dell’origine della sofferenza, la cessazione della sofferenza attraverso la realizzazione dell’ineluttabilità dell’impermanenza (tutto muta, si modifica, si ripresenta) e la pratica della disciplina mentale necessaria per raggiungere la purificazione dei propri pensieri, parole e azioni.
Il Buddha personaggio storico lascia il suo corpo all’età di 80 anni, viene cremato e le sue ceneri, inizialmente suddivise in otto parti, verranno poi divise ulteriormente in 84mila parti dall’imperatore indiano e novello buddhista Ashoka nel III secolo a.C., epoca in cui la vita del Buddha viene mitizzata. La distribuzione delle reliquie (le ceneri) è infatti al centro della diffusione della nuova filosofia. Il Buddha predicava ai suoi adepti di non considerarlo divino, non voleva fondare una religione, ma aveva formulato un sistema di pensiero, una specie di ginnastica mentale atta al raggiungimento della tranquillità esistenziale: non per nulla nelle lingue orientali la parola Buddhismo non esiste ed è rimpiazzata da «Storie del Buddha», la sua vita come esempio universale delle possibilità umane.
È importante contestualizzare l’esperienza e l’insegnamento del Buddha all’interno della tradizione sramanica (dalla parola sanscrita «sram» traducibile come «esercitare uno sforzo») praticata in quei secoli nel territorio indiano da numerosi pensatori che rinunciavano alla loro vita quotidiana per cercare la salvazione attraverso una via ascetica di rinuncia, una reazione allo strapotere religioso dei bramhini e ai vincoli intellettuali e filosofici dei Veda (i più antichi testi induisti). Il Buddhismo si propagò più di altri movimenti perché proponeva un ascetismo moderato e un codice di interazione praticabile da tutte le caste. Basilare l’acquisizione di meriti in cambio di elemosina e opere di bene come ad esempio la costruzione di monasteri e stupa contenenti le reliquie del Buddha. Questi ultimi vennero soprattutto finanziati da mercanti e artigiani per cui ben presto alle vie di commercio si sovrapposero quelle di pellegrinaggio. Buddha inoltre predicava la non violenza che portava alla pace e di conseguenza anche allo sviluppo economico.
L’altro figlio di re cui si deve la contaminazione artistico culturale dell’arte Gandhara è Alessandro III di Macedonia che nasce a Pella il 20 luglio del 356 a.C. e ha come tutore Aristotele. Irruente, collerico, violento, ma anche geniale, curioso, carismatico, spavaldo e abilissimo nelle armi, Alessandro diventerà un insuperabile stratega, sempre sul campo di battaglia, rapido nelle decisioni e spietato, rispettoso solo di certi nemici e delle loro tradizioni, ma in genere intransigente con i vinti, sempre ossessionato dalla vittoria, sul finire della sua breve vita megalomane e alcolizzato. Appena ventenne decide di vendicarsi di Dario, l’imperatore persiano achemenide che aveva aggredito la Grecia, e nel 334 a.C. inizia un’offensiva che lo porta a invadere l’Anatolia mettendo in fuga i Persiani, poi l’Egitto, di seguito la Mesopotamia e infine la Persia. Si spinge fino al Gandhara, attraversa l’Hindu Kush e invade parte del Centro Asia, passa il fiume Indo ed è pronto ad addentrarsi in India attraversando il Gange quando il suo esercito, ormai esausto, si ribella e lo costringe a retrocedere. Muore, si dice avvelenato, nel 323 a.C. all’età di 33 anni nella città di Babilonia. Ammazza intere popolazioni, brucia e distrugge, incendia pure Persepoli, rapina e saccheggia, ammassa fortune, abbandona i vinti alla violenza del proprio esercito, ma al contempo fonda una ventina di città, perlopiù chiamate Alessandria.
Alessandro si vedeva come arbitro dell’umanità e perseguiva una politica di mescolamento dei popoli tant’è che nel 324 a.C. a Susa, in Persia, obbliga diecimila combattenti del suo esercito a sposarsi con donne asiatiche. Dalla loro unione doveva nascere la prima generazione del nuovo Stato cosmopolita, un’attitudine ben diversa dai radicati odii che i Greci nutrivano per i cosiddetti barbari. Affascinato dagli usi dei satrapi achemenidi, addotta i loro costumi e rituali, irritando i suoi generali, si sposa e ha un figlio che nasce dopo la sua morte. La scorribanda di Alessandro crea uno shock profondo al sistema geopolitico dei Paesi conquistati, produce nuove alleanze, rigenera l’organizzazione socioeconomica e le rotte commerciali, rinsalda o distrugge l’egemonia di alcuni gruppi al potere, rivoluziona antiche strutture di pensiero e soprattutto conquista l’immaginario delle diverse popolazioni, creando il mito dell’eroe invincibile, violento, ma anche apportatore di novità, forse di prosperità. Un mito, quello di Alessandro, che riecheggia ovunque e acquista nuove forme e manifestazioni, sovrapponendosi ad altri miti, diventando la figura di riferimento che perdura nell’arte, nella letteratura e nel folklore, dalle sculture Gandhara ai mosaici bizantini, dalle miniature islamiche persiane e indiane ai fondali dipinti dei cantastorie afgani contemporanei. Dopo l’improvvisa scomparsa di Alessandro nell’area si avvicendano innumerevoli regni: i seleucidi, i Greco-battriani, gli Indo Greci, i Mauryage, i Shunga, gli Indo Parti, gli Indo Sciti, i Kushan, i Gupta, i Sassanidi e gli Heftaliti. Perché tanto interesse? Prima di tutto la regione del Gandhara, nel Nord ovest dell’odierno Pakistan, era fertile e ricca, ma soprattutto era un luogo di incrocio delle grandi vie commerciali (è parte fondamentale della Via della Seta già dal II secolo a.C.).
Nonostante questo andirivieni, la presenza di comunità greche oppure completamente ellenizzate in tutto l’attuale Pakistan e Afghanistan si protrasse attraverso i secoli fino all’arrivo dell’Islam. Ne sono testimonianza i resti di grandi città di carattere greco come Ai Khanum, Taxila e altre minori, tutte con spesse mura, connotate da acropoli, ampie strade centrali e gruppi di case disposte simmetricamente a pianta greca. Numerosi anche i manufatti ellenistici ritrovati, come coppe e piatti in argento sbalzato, monete, gemme e sigilli intagliati, oggetti in oro, avorio e vetro. Molti inoltre i calchi in stucco di epoca romana di rilievi figurativi che probabilmente furono fonte di ispirazione degli artisti locali. L’organizzazione sociale nei centri urbani e gli usi e costumi erano in prevalenza greci, la koinè greca era la lingua comune, i caratteri greci vennero in parte adottati per scrivere le numerose lingue locali. L’Ellenismo era dominante con l’eccezione del culto buddhista, come attestano i numerosi stupa ritrovati nelle varie città. La mitologia e l’estetica greca innestate alla filosofia buddhista sono alla radice dell’origine dell’arte Gandhara. Non è un caso che la commistione di idee e forme, originariamente lontanissime e che ora chiamiamo arte del Gandhara, sia avvenuto in un contesto culturale buddhista in quanto il Buddhismo è stato la prima filosofia/religione di vocazione universalista, negando il sistema delle caste, dando alle donne libertà di accesso al culto, rifiutando il ritualismo, evitando la formazione di un clero onnipotente e promulgando l’idea che la sofferenza accomuni e dia uguale dignità a tutti gli esseri viventi. Quindi un sistema filosofico intrinsecamente cosmopolita e aperto al multiculturalismo, addirittura portatore di accettazione delle diversità e quindi di pacifica convivenza culturale.
Non si sa quasi nulla delle origini dell’arte elleno-buddhista e la cronologia è ancora da ricostruire con esattezza. I testi inesistenti, le testimonianze scarse e spesso poco dettagliate o affidabili, le continue invasioni con annesse distruzioni, il degrado dei siti dovuto alla scomparsa del Buddhismo avvenuta in questa regione già a partire dall’VIII secolo, gli scavi archeologici insufficienti, e per finire la devastazione degli ultimi quarant’anni di guerra, hanno reso l’opera di ricostruzione quasi impossibile. Il Buddha aveva esplicitamente dichiarato di non essere divino e che la sua filosofia non necessitava la sua rappresentazione. Quello che rimaneva ai suoi adepti erano le ceneri del suo corpo che ne comprovavano l’esistenza e che mantenevano la sua meravigliosa energia. L’infinita divisione delle sue ceneri determinò così la costruzione di numerosissimi stupa che le conservavano segnalando la presenza della sua santità, come in Occidente la presenza della reliquia confermava la realtà del mito. Quello che ci rimane del periodo più antico, tra il III e il I secolo a.C., sono per lo più reliquiari e qualche raro modello di stupa in bronzo che li ospitava. Sono sopravvissuti anche diversi piccoli vassoi circolari per culti domestici in pietre diverse e decorati da motivi di derivazione ellenistica, spesso Nereidi, ma anche scene dionisiache legate al culto del vino.
La prima grande tradizione scultorea del Gandhara è quella dei fregi in scisto, una roccia metamorfica facile da scolpire, che decoravano la base e il tamburo degli stupa e illustravano le storie della vita dell’Illuminato adottando prevalentemente soggetti di derivazione greca. Non solo personaggi abbigliati alla greca, ma figure mitiche come Ercole, Dionisio, Atlante, Sileno, satiri e menadi o addirittura miti come il cavallo di Troia. In questa prima fase l’immagine del Buddha era esclusivamente aniconica. Veniva rappresentato attraverso le sue impronte, un trono vuoto oppure occupato dalla ciotola dell’elemosina, dall’albero del pipal sotto il quale raggiunse l’Illuminazione o dal suo turbante. Datano a questo periodo i primi testi buddhisti che parlano della vita del Buddha e sono debitori alla cultura greca per l’uso dell’alfabeto (fino ad allora la narrativa sacra era esclusivamente mnemonica). L’origine della rappresentazione del Buddha come essere umano è ancora oscura e dibattuta. Senz’altro l’apporto delle comunità greche di religione buddhista fu preponderante, ossessionate dal culto della forma e dalla necessità di rappresentare gli dei in forma umana. Con l’aumento dei monaci e dei devoti il Buddhismo da concetto intimo e personale di raggiungimento dell’illuminazione passa a essere una religione devozionale che vede nel Buddha il salvatore. Inoltre i sovrani Kushan, padroni del Gandhara dall’inizio della nostra era, avevano adottato il Buddhismo come religione di stato e trovarono necessaria la realizzazione di un’immagine che rappresentasse l’idea del dio/re unificatore in modo da essere punto di riferimento in tutto il vasto territorio abitato da popolazioni diversissime. Nasce dunque con ogni probabilità nel Gandhara l’immagine umana di Buddha e si propaga allo stesso tempo a Mathura capitale Kushan dove assume un’impronta indiana caratterizzata da forme più fluide e una meravigliosa pietra rosata.
Il Buddhismo ebbe ora la necessità di rappresentare l’uomo in forma divina. Ed ecco che attorno alla fine del II secolo d.C. appaiono le prime rappresentazioni. Il corpo atletico acquista dinamismo come se il Buddha stesse avvicinandosi verso il devoto e si intravede al di sotto dell’himation, un mantello leggero portato dall’aristocrazia greca che in seguito verrà sostituito da una toga romana più spessa. Il viso abbandonando ogni traccia di realismo, attraverso una bellezza idealizzata vuole essere espressione della pace interiore che si può ottenere mettendo in pratica i principi buddhisti, la visualizzazione attraente e comprensibile dello stato di Illuminazione. L’immagine non solo descrive la vittoria del Buddha sulla propria sofferenza, ma suggerisce al devoto la possibilità di ottenerla. Il viso di Buddha è ormai un’icona universale connotata da alcuni segni come l’«ushnisha», la protuberanza sotto i capelli che simboleggia la sua energia spirituale che fuoriesce dal cranio verso l’alto, il terzo occhio, cioè la visione della dimensione divina, e i lobi delle orecchie allungati, marchio di aristocratica bellezza e disponibilità a udire sia la voce interna sia la sofferenza del mondo intero. Il Buddhismo diventa un sistema religioso sempre più complesso e variegato e il Buddha assume un ruolo prevalentemente devozionale. L’immagine ora esprime autorità spirituale, è più distante, immobile, formale, perfetta, stilizzata. Le sculture si fanno sempre più grandi, così come le nicchie che le ospitano nei complessi monasteriali costruiti attorno agli stupa, anch’essi di dimensioni sempre maggiori. Da rilievi archeologici si deduce che solo nel Gandhara ne esistevano una settantina. La produzione di sculture aumenta di conseguenza in quanto venivano acquistate e donate in gran numero dai pellegrini. Non solo immagini del Buddha, ma anche grandi e complessi fregi, per lo più raffiguranti il Buddha in gloria attorniato da Bodhisattva, monaci e mecenati. È in questo periodo e contesto che si definisce il concetto di Bodhisattva e la sua immagine diventa altrettanto importante e diffusa di quella del Buddha. Bodhisattva in sanscrito significa «essere illuminato» e indica colui che, raggiunto lo stato di buddhità e uscito dal ciclo delle rinascite per abitare il Nirvana o paradiso buddhista, decide per infinita compassione di rinunciarvi e di reincarnarsi per dedicarsi alla salvazione di tutti gli esseri viventi: i Bodhisattva sono comparabili in un certo senso ai santi cristiani.
La necessità di immagini sempre più grandi e la tradizione di scavare grotte nelle pareti delle montagne per ospitare celle monacali, sale di preghiera e santuari al riparo da aggressori, sviluppò l’uso della terracotta e dello stucco in modo da poter ottenere sculture più grandi, meno costose e di più rapida realizzazione. Già fragili per il materiale utilizzato, tali opere hanno subito intemperie, inondazioni, terremoti, abbandono dei siti, incuria e distruzioni selvagge: dagli Huna alle armate musulmane, dai russi ai mujahidin, dai talebani ai bombardamenti delle potenze straniere, soprattutto americane, che hanno sconvolto l’Afghanistan in questi ultimi 40 strazianti anni di guerra. Le grandi immagini erano costruite attorno a un’anima in legno avvolto da paglia o tessuto, strati di terra sempre più sottile venivano poi plasmati a formare l’immagine. A lavoro terminato le grotte venivano riempite di legna che bruciava a fuoco lento anche per un mese creando una gigantesca fornace. Le sculture venivano ultimate applicando dettagli a stampo come i gioielli dipinti o dorati. Le pareti delle grotte erano completamente affrescate. È da questo contesto che provengono i pochi pezzi conosciuti, parti di grandi tableau raffiguranti Buddha o Bodhisattva attorniati da monaci, santi, mercanti e facinorosi alla maniera dei Sacri Monti nostrani. L’effetto teatrale doveva essere straordinario, con le immagini illuminate da lumini, avvolte nei fumi dell’incenso, immerse nell’eco degli inni. Le figure in terracotta sono spesso molto espressive in quanto la malleabilità del materiale permetteva agli artisti di comunicare una vitalità, una fluidità e un’energia difficili da esprimere con la pietra. Sarà soprattutto la scultura in terracotta dipinta, trasportata dagli artisti itineranti, che definirà l’arte buddhista del centro Asia e della Cina ispirata all’arte Gandhara. Con la diffusione della dottrina buddhista lo stile Gandhara influenzerà tutto il mondo asiatico. Questa inusuale mescolanza di stili e idee cambierà la storia del mondo.
Concludo con i giganteschi Buddha di Bamyan. Fulcro mercantile a nord dell’Afghanistan sulla grande arteria commerciale che univa l’Oriente con l’Occidente, Bamyan era uno dei centri di attività monacale e di pellegrinaggio più famosi, abitato da migliaia di monaci e costellato da innumerevoli monasteri. La tradizione di scolpire immagini buddhiste sulle rocce o pareti delle montagne a uso dei pellegrini era molto diffusa tra il VI e il VII secolo, perché incoraggiavano e proteggevano il viandante e lo ispiravano a confrontarsi con tranquillità e determinazione con la sua sofferenza, acuita dal cammino, dai pericoli, dalle difficoltà fisiche e dalla lontananza da casa: tutte emozioni da analizzare e da disperdere per il proprio benessere. I Buddha misuravano più di 50 metri e facevano parte di un percorso cerimoniale che includeva altre immagini ormai scomparse. Furono scolpiti nella roccia e rifiniti in stucco ed erano senz’altro dipinti. Per anni si pensò che i visi non rifiniti fossero stati sfigurati da Nadir Shah, condottiero persiano del XVIII secolo, ma ora si presume che gigantesche maschere in rame dorato fossero fissate sul viso con corde che passavano attraverso fori ancora visibili. Le nicchie erano tutte affrescate e la loro visione da lontano doveva essere senz’altro straordinaria. Ora le figure sono sparite, scoppiate, scomparse in una grande nuvola di polvere, ma le nicchie vuote mantengono ancora il ricordo, l’energia e la presenza dei Buddha. Liberate dalla forma stessa sono la perfetta incarnazione di due concetti fondamentali del Buddhismo: «aniça», l’impermanenza di tutte le cose e «suniata», la rappresentazione del vuoto, la consapevolezza dell’assenza come qualità intrinseca dell’esistenza e comprensione profonda della non esistenza. Se il Buddha li avesse visti esplodere avrebbe sorriso.