Image

Verifica le date inserite: la data di inizio deve precedere quella di fine

Image
Image

Che cosa ci insegna ancora Aby Warburg (anche sull’Isis)

Che cosa ci insegna ancora Aby Warburg (anche sull’Isis)

Image

Anna Somers Cocks

Leggi i suoi articoli

Il direttore David Freedberg usa le immagini storiche per spiegare il fanatismo in Medio Oriente: «La direzione di Gombrich ci aveva allontanato dal pensiero immaginifico e induttivo di Aby»

Il Warburg Institute, venerato da quanti studiano la storia dell’arte e il pensiero del passato, può anche essere un cupo edificio anni ’50 della University of London, ma ospita una biblioteca unica e straordinaria per i suoi ricchi contenuti esoterici, comprese materie che il pensiero moderno ha consegnato all’oblio intellettuale o alla superstizione: astrologia, alchimia, codici segreti, divinazione e magia. Per comprendere il passato è necessario conoscere quanto passava per la testa della gente, riteneva Aby Warburg, fondatore della biblioteca. Egli lasciò pochissimi scritti, ma decisamente rivoluzionari. Scoprì il modo in cui l’astrologia indiana venne trasmessa attraverso l’Egitto e in seguito attraverso gli studiosi arabi fino a formare la tradizione astrologica occidentale, ripresa nei tarocchi così come negli affreschi quattrocenteschi di Palazzo Schifanoia a Ferrara, che nessuno aveva capito prima che lui riuscisse a interpretarli. 

Warburg credeva anche nella necessità di comprendere le culture diverse dalla propria, per questo studiò sia il Rinascimento italiano sia la tribù Hopi in Arizona, nell’esclusivo interesse della mnemosyne, la memoria, come recita il motto sull’ingresso della biblioteca. Le immagini e il modo in cui vengono trasmesse costituiscono un elemento fondamentale della comprensione e della memoria. Non c’è niente di paradossale però nel fatto che il nuovo direttore del Warburg sia specializzato in distruzione delle immagini. L’iconoclastia, che con sconcerto abbiamo visto riesplodere oggi, è «testimonianza di ciò che l’arte effettivamente rappresenta per la gente, dall’amore e dal desiderio all’odio, alla rabbia e al risentimento», dice il direttore dell’istituto David Freedberg. L’umanità non può essere separata dalla politica e dal contesto pubblico: Freedberg ne è convinto fin da quando lasciò il Sud Africa da solo, all’età di 18 anni, per ragioni politiche, e intende quindi applicare le capacità e l’approccio del Warburg alle più urgenti questioni dei nostri tempi, a cominciare dalla scioccante brutalità adottata dall’Isis. «La nostra forza filologica è grande, in particolare nel campo della filologia araba; uno dei miei obiettivi sarà rendere utile tale capacità in questi tempi di duri scontri culturali». 

Un proposito che arriva al momento giusto. Parole armate. Quello che l’Isis ci dice. E che noi non capiamo (tradotto da Bompiani a fine 2015) è un libro che ha scosso l’opinione pubblica con la sua dettagliata analisi del linguaggio proprio dell’Isis. Philippe-Joseph Salazar, professore francese di retorica, descrive il potere del linguaggio del loro leader, Abu Bakr Al Baghdadi, enfatizzato da immagini video ricche di violenza estrema, cosa  che l’ha reso enormemente attraente: un’attrazione con cui però non possiamo sperare di rivaleggiare fin quando non la prenderemo sul serio invece di deriderla o denunciarla come insana barbarie. Ricordate l’uso politico del Terrore da parte dei leader della Rivoluzione Francese, ammonisce Salazar.

Lo scorso gennaio il Warburg ha organizzato un convegno dal titolo «Conflitti di immagine contemporanei: violenza e iconoclastia da Charlie Hebdo all’Isis». Come tutti sanno, l’Isis ha fatto un uso sofisticato dei social media per diffondere le proprie violenze, uccisioni o distruzioni. «La vecchia fusione di immagine e realtà, dice Freedberg, è alla base dell’iconoclastia dell’Isis e della terribile riduzione dei suoi oppositori, reali o immaginari, al rango di mere immagini». In quell’occasione Freedberg ha spiegato come la cantilenante colonna sonora dei video diffusi a febbraio 2015 sulla distruzione da parte dell’Isis delle sculture del Museo di Mosul ripeta in modo ossessivo: «Il Profeta ci ha ordinato di distruggere ed eliminare le sculture», «I suoi seguaci fecero lo stesso dopo di lui quando conquistarono territori», e «I monumenti che vedete alle nostre spalle non sono che statue e idoli di popoli dei secoli passati, che le adoravano anziché adorare il vero dio». Ma questi distorti riferimenti all’hadith, la tradizione attribuita a Maometto, dice Freedberg, vengono superati e vi si aggiunge una nuova giustificazione a quanto viene fatto: «Queste statue e idoli non erano qui all’epoca del Profeta o dei  suoi seguaci; sono state scavate da Satanisti». Tali sono reputati gli archeologi dall’Isis. Freedberg ricorda che l’iconoclastia è spesso accompagnata dall’omicidio. La distruzione delle immagini da parte dei protestanti nella Cattedrale di Anversa, la notte tra il 21 e il 22 agosto 1566, venne seguita dall’uccisione prima dei preti, i guardiani di quelle immagini, e in seguito di chiunque fosse associato a essi, cioè la comunità cattolica: «Se si proteggeva un quadro si era allineati con le forze politiche e religiose che esso sottintendeva». La stessa logica con cui l’Isis ha decapitato Khaled al-Asaad, responsabile di Palmira.

Il mondo è stato oltraggiato dalla distruzione del patrimonio culturale e della storia, ma Freedberg ha fornito ragioni fisiologiche per il disgusto che abbiamo provato: «Ogni crollo di una statua nel video di Mosul, ogni rottura di una testa produce un sussulto nel corpo di chi la osserva… ogni uso del martello pneumatico per cancellare un volto genera una risposta viscerale e introspettiva». Queste reazioni sono tracciabili a livello delle correlazioni corticali, dice. «Noi avvertiamo fisicamente gli assalti violenti e le lesioni ai corpi degli altri grazie all’attivazione nel cervello della nostra corteccia somatosensoriale, dell’insula e di altre correlazioni corticali legate alle sensazioni». 

Queste affermazioni, rese possibili delle moderne scoperte neurologiche, spiegano e allargano le intuizioni di Aby Warburg. Egli nutriva grande interesse per l’espressione esteriore delle emozioni attraverso il movimento nel Rinascimento italiano, specialmente nei dipinti di Botticelli, che culmina nella «Pathos Formula» da lui coniata, l’idea cioè che certi gesti abbiano un significato perenne e universale. Questo è l’altro aspetto del pensiero di Warburg che Freedberg ritiene debba essere tenuto vivo dall’Istituto. Gli studiosi hanno spesso osservato i gesti per confrontare gli uni agli altri, dimenticando però, come invece Warburg comprese, che tali espressioni di emozioni sono state trasmesse nei secoli perché esistono ragioni biologiche di base per atteggiarsi in un certo modo: «Si alzano le mani quando si è addolorati o quando si salta dalla gioia: sono bisogni fisici basilari, dice Freedberg. La neuroscienza cognitiva ci ha oggi fornito gli elementi per comprendere meglio come la gente reagisca alle immagini, che si trovi in un museo o a casa propria. Sono cose largamente condivise tra i neuroscienziati, ma non ancora tra gli umanisti». 

Nel complesso David Freedberg vede il proprio ruolo come quello di rivitalizzatore dell’influenza di Aby Warburg che a suo parere si era affievolita sotto l’illustre direzione di sir Ernst Gombrich (1959-72). «La cosa curiosa, dice, è che era molto scettico, così come i suoi successori, a riguardo dello stesso Warburg. La ragione è che Gombrich aveva lavorato nel British Monitoring Service durante la guerra, dove ascoltò le trasmissioni tedesche. Penso che arrivò ad ammirare il Positivismo britannico, aspetto che andava di pari passo con la sua ammirazione per Karl Popper, il grande filosofo positivista viennese. Era quindi scettico in merito ai balzi immaginifici e induttivi di Warburg, tanto da far assumere all’Istituto un tono positivista che ne frenò il potenziale. La mia preoccupazione è che, nonostante l’apertura degli archivi da parte dei direttori post-Gombrich, il potenziale dell’opera di Warburg non sia stato liberato». Freedberg sa di dover coinvolgere i suoi studiosi e che potrà incontrare qualche opposizione. Ma fa appello al carisma del fondatore. «I miei tre obiettivi per il Warburg sono tutti impliciti nell’opera di Aby Warburg, dice. Dobbiamo orientare il lavoro verso l’antropologia, la biologia e la politica. Dopo tutto, ciò che interessava a Warburg era il motore che aziona la trasmissione della cultura. È questo ciò a cui dobbiamo guardare, soprattutto oggi».

 

Anna Somers Cocks, 19 maggio 2016 | © Riproduzione riservata

Altri articoli dell'autore

Una guida in 10 punti, partendo dai 50mila euro raccolti da Palazzo Madama a Torino per acquisire cinque smalti del prezioso scrigno medievale

In una rara intervista del 2005 l’Aga Khan descrive il suo approccio globale per aiutare le comunità islamiche ad aiutarsi, ripristinando al contempo il loro patrimonio del passato: non basta ricreare un ambiente fisico senza affrontare anche i problemi sociali che lo circondano. Solo così si crea  un «ambiente favorevole», dove possano fiorire la speranza, l'autosufficienza e la società civile  

Dopo sei anni alla Pilotta di Parma, da nove mesi guida il museo fiorentino, sempre più minacciato dal sovraffollamento (5 milioni di ingressi nel 2023): il nuovo direttore vuole attirare pubblico a Palazzo Pitti e a Boboli, senza sacrificare i 40 milioni di euro di ricavi annui, con novità e progetti, dal Museo della Moda alla nuova Tribuna, al 30% di spazio in più nelle 12 sale dei Nuovi Uffizi

Un antiquario parigino offre a 50mila euro cinque preziosi smalti di Limoges che si è scoperto appartenere alla decorazione del cofano, conservato in Palazzo Madama, del cardinale Guala Bicchieri, promotore della Magna Carta. Il museo torinese promuove un crowdfunding per raccogliere entro fine anno i fondi 

Che cosa ci insegna ancora Aby Warburg (anche sull’Isis) | Anna Somers Cocks

Che cosa ci insegna ancora Aby Warburg (anche sull’Isis) | Anna Somers Cocks