Image

Daniele Manacorda

Foto: Danilo Pavone, Cnr-Ibam

Image

Daniele Manacorda

Foto: Danilo Pavone, Cnr-Ibam

Che cosa vorremmo da un Ministro della Cultura

L’archeologo Daniele Manacorda traccia una road map per il neonominato al dicastero del Collegio Romano

Image

Daniele Manacorda

Opinionista Leggi i suoi articoli

Due anni fa segnalavo alla presidente Meloni che in un Ministero della Cultura che aveva visto alternarsi nomi di grande spicco, ma anche figure assai scialbe, la differenza l’avrebbe fatta la qualità delle persone, quali che fossero gli ideali di riferimento. La fine dell’esperienza Sangiuliano mi pare riporti il tema alla ribalta. L’ex ministro ha tutto il diritto di rivendicare il suo operato, ma in realtà il carniere è ben scarso. I due anni passati sono stati attraversati dal disastro del decreto 161 («Linee guida per la determinazione degli importi minimi dei canoni per la concessione d’uso dei beni statali»), poi ritirato con tre passi indietro, che non modificano l’assunto di fondo ispirato a una concezione proprietaria del patrimonio pubblico.

La riforma dei Dipartimenti (pensata forse per aumentare i poteri discrezionali del ministro) sarà invece giudicata dai fatti: il passato insegna che la separazione verticale tra funzioni molto interconnesse ostacola il dialogo e allunga la catena di comando. Vedremo.

Per un’identità dinamica

Il nuovo ministro, Alessandro Giuli, si presenta con la passata esperienza al MaXXI riversata in un libro che allarga il cuore (Gramsci è vivo. Sillabario per un’egemonia contemporanea, Rizzoli 2024), se non altro per il metodo condivisibile che propone: quello del dialogo e della tolleranza come fondamenti della convivenza civile, della ricerca ostinata dell’unità nelle differenze, del rifiuto di trasformare la contesa delle idee in odiosa delegittimazione dell’avversario, perché lo scontro può avvenire tra argomenti, non tra chi argomenta.

Quanto ai contenuti, a chi non si nutre di faziosità, credo sia sufficiente il suo rifiuto esplicito della nefasta esperienza fascista («un punto dell’identità nazionale che deve trovarci uniti e concordi e da cui possiamo ripartire»), il riconoscimento (per quanto ovvio) della Costituzione quale «perimetro invalicabile in cui si colloca ogni nostro discorso pubblico» e la necessità di difendere in modo intransigente la divisione dei poteri costituzionali, la libertà di espressione, i diritti civili.

Personalmente, mi ritrovo nel concetto di «identità dinamica» cui il libro si ispira, e anche nel suo auspicio, che mi sembra sincero, a «lavorare a un racconto unitario di noi stessi, di noi italiani, in cui ciò che unisce diventa più importante e vitale di ciò che divide». Bene. 

Coerenza fra pensiero e azione

Possiamo augurare a tutti, nessuno escluso, che sia finito il tempo delle analisi del sangue, per dare maggiore attenzione a quella cosa impalpabile che è la coerenza. Molti la usano pensando che sia una stolida adesione oggi a quel che si pensava o diceva 50 anni fa (una noia mortale!). Altri pensano che la coerenza viva nel presente, cioè che sia la rispondenza verificabile tra ciò che si dice e si scrive e ciò che si fa: coerenza fra pensiero e azione.

Che il potere si occupi, mi sembra un dato di fatto: il problema è con chi. La vicenda Ales insegna che il profilo professionale fa la differenza e può creare imbarazzi. Il ministro Sangiuliano è scivolato sulla buccia di banana delle consulenze. Che non sono (come alcuni possono pensare) gli strapuntini del sottogoverno per assecondare le ambizioni di questo o quell’amico. Occhio ai consulenti! E ancor più occhio al rischio della malintesa fedeltà. Quel che conta è la qualità delle persone. E Alessandro Giuli dimostra di saperlo quando scrive che è «possibile, invece che politicizzare la cultura, acculturare la politica, e non farlo da soli ma farlo con altri e da protagonisti. Questa è la nostra missione». Perché «alla politica deve spettare l’ultima parola, ma non la prima». È ben questo il ruolo dei consulenti, che nei più diversi campi di interesse del MiC sono chiamati a «stimolare il dubbio, non seminare certezze», e a dare suggerimenti per il meglio: «per il bene della Nazione» come piace ad alcuni o «per il bene del Paese» come preferiscono altri. Io mi accontenterei di pensare che siano «per il bene dell’Italia». 

Finisce la stagione del vittimismo e della fedeltà

In conclusione, conforta leggere che Giuli ritenga «fondamentale rinunciare al piagnisteo dell’escluso e nello stesso tempo uscire dalla logica guerresca della contrapposizione tra fazioni». Se questo significa por fine alla stagione del vittimismo e della fedeltà, grazie ministro! 

Una domanda viene spontanea: se l’egemonia culturale si costruisce con le idee dal basso lasciate libere di fiorire (non certo dall’alto dei Governi: questo si chiamerebbe controllo della cultura) l’egemonia su quale terreno si dovrebbe affermare? Sul cinema, sul teatro, sulla lirica e sulla danza? È questa la «Cultura» demandata a un Ministero cui prima erano intitolati più concretamente i Beni e le Attività culturali esistenti, cioè l’amministrazione del patrimonio culturale pubblico (musei, siti, paesaggi, biblioteche, archivi...), e il sostegno alle libere produzioni nel campo in particolare delle arti creative e performative? La produzione culturale più è lontana dalla politica e dall’amministrazione e meglio è (sarà comunque sempre possibile sostenerla con risorse pubbliche). Che senso ha rinchiudere la Cultura in un recinto (quello che può piacere a chi ritiene che il Bello non abbia nulla a che vedere con l’Utile) che per definizione perimetra ciò che sarebbe Cultura da ciò che non lo è: cioè Istruzione, Università, Ambiente, Sanità e Scienza, Comunicazione, Sport, Diritto e la stessa Economia?

Certo, lo fanno da sempre anche i giornali e le reti televisive, con le loro pagine culturali che escludono dalla «Cultura» il resto del mondo. Se Cultura è anche la capacità di comprendere la complessità del reale, di capire meglio chi siamo, il contesto in cui agiamo, le radici e gli orizzonti dei nostri comportamenti, il Ministero della Cultura (più che fregiarsi di un nome divenuto forse troppo ingombrante) farebbe bene a testimoniare con la propria azione una sua visione del patrimonio e dell’interesse pubblico, dove le conoscenze umanistiche e scientifiche, i concetti e le scelte del diritto e dell’economia, le pratiche sociali applicate a un ambiente intriso di storia e natura trovino sintesi e proiezione al futuro. Il fine è un miglioramento effettivo della qualità della vita pubblica, dei singoli individui e della cittadinanza nel suo insieme.

Daniele Manacorda, 07 ottobre 2024 | © Riproduzione riservata

Altri articoli dell'autore

Il vero problema sembra essere la nuova (vecchia) organizzazione per Dipartimenti, già varata ai tempi del ministro Buttiglione e presto abbandonata non per motivi politici, ma perché ritenuta non adeguata a un Dicastero come quello della Cultura, capillarmente distribuito sul territorio

Considerazioni sul decreto ministeriale sui canoni di concessione d’uso della immagini del patrimonio culturale pubblico

Posizioni politiche e sentenze emesse: prosegue il dibattito sulla libertà di riproduzione delle immagini

Uno conserva le fattezze gioviali di una visione che un tempo chiamavamo progressista, ma identifica «statale» con «pubblico», l’altro è nostalgico dello «Stato etico» ottocentesco

Che cosa vorremmo da un Ministro della Cultura | Daniele Manacorda

Che cosa vorremmo da un Ministro della Cultura | Daniele Manacorda