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Wendy Ewald, «Self-portrait reaching for the Red Star sky-Denise Dixon» dalla serie «Portraits and Dreams» (1975-82)

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Wendy Ewald, «Self-portrait reaching for the Red Star sky-Denise Dixon» dalla serie «Portraits and Dreams» (1975-82)

Chi è l’autore di una fotografia?

Una mostra al Museum of Contemporary Photography di Chicago risponde che non è mai solo chi sta dietro l’obiettivo

Il 30 maggio il Museum of Contemporary Photography del Columbia College Chicago (MoCP) inaugura la mostra «Collaboration: A Potential History of Photography in Dialogue with the MoCP Collection» (aperta al pubblico fino al 16 agosto), dedicata a esplorare concetti quali la paternità di un’immagine, la sua circolazione e gli squilibri di potere alla base dell’atto fotografico

Quasi cinquant’anni fa, nel suo libro Sulla fotografia, Susan Sontag scrisse che «fotografare le persone significa violarle, vedendole come loro non possono mai vedersi, avendo una conoscenza di loro che loro stesse non potranno mai avere; trasforma le persone in oggetti che possono essere posseduti simbolicamente». Oggi, un ambizioso progetto di ricerca guarda alla storia della fotografia per reintepretarla, studiando progetti storici e contemporanei, nel tentativo di analizzare la relazione tra fotografo e fotografato, l’impatto di un’immagine nella vita del soggetto e il ruolo che la fotografia gioca nel perpetuare o ribaltare le narrative esistenti.

Frutto di una collaborazione iniziata ormai da quindici anni tra le fotografe Wendy Ewald e Susan Meiselas e dalle accademiche Laura Wexler, Ariella Aïsha e Leigh Raiford, questo studio è diventato nel 2024 un libro, Collaboration: A Potential History of Photography. Contemporaneamente, le conclusioni della ricerca sono state applicate alla collezione del MoCP, traducendola in un’esperienza fisica che sposta il focus dalla singola immagine o serie fotografica all’atto di creazione, nonché alle questioni etiche che lo accompagnano. Curata da Ewald, Meiselas e Wexler, insieme a Kristin Taylor, responsabile della collezione del MoCP, la mostra presenta 80 opere di 29 artisti, organizzate in otto temi che seguono altrettanti capitoli del libro.

All’entrata del museo, il pubblico è accolto da un manifesto, una dichiarazione di intenti che sottolinea l’aspetto inquisitivo e aperto del processo: «Che tipo di collaborazione è messa in atto, perseguita e sperimentata in ciascun caso? Che tipo di decisioni hanno preso le parti implicate, con e attraverso la fotografia, a volte in condizioni insostenibili? E come possiamo dare un senso, limitare o addirittura sopportare di essere in debito con le forme abusive di collaborazione che si registrano in molti dei progetti?». La mostra, come il libro, non presenta soluzioni. Piuttosto, dimostra che «la fotografia è complicata», come racconta Taylor. Nel percorso espositivo, si trovano «degli scambi rispettosi e reciprocamente vantaggiosi, mentre altre volte le persone fotografate non hanno avuto controllo sull’immagine e sull’impatto che ha avuto sulla loro vita. In questo senso, Collaboration non offre una risposta chiara, ma piuttosto presenta una varietà di lavori che permettono di creare la propria interpretazione e decidere per sé stessi dove tracciare la linea». 

Ad esempio, uno dei progetti che, secondo Taylor, «presenta tantissimi punti di domanda» riguarda Jessie Mann: figlia della fotografa Sally Mann, crescendo Jessie fu soggetto di numerosi scatti della madre, per poi diventare la musa di Len Prince. La mostra riporta scambi e conversazioni tra i tre, esplorando l’ambivalenza e i dilemmi etici che hanno vissuto ma anche l’impatto sul processo artistico. In particolare, una citazione di Jessie ci ricorda che «quando diamo per scontato che il soggetto dell’arte è passivo, o sfruttato, come  spesso facciamo, è lo spettatore, non il fotografo, che sta prendendo controllo sul soggetto».

Per offrire una comprensione il più completa possibile del momento fotografico, l’esposizione inizia dai ritratti (il titolo della sezione è «La persona fotografata era sempre presente» e ambisce a dare una voce ai soggetti spesso silenziosi delle immagini). Si continua con temi quali i progetti collaborativi (come «Live, Love, Refugee» di Omar Iman) o la rappresentazione di violenza, difficoltà e vulnerabilità (dove si traccia la linea tra il bisogno di sensibilizzare il pubblico e il rischio reale di sfruttamento di persone già fragili). Per finire, la ricerca di sposta negli archivi di fotografi che offrono nuovi significati e narrative a fotografie già esistenti (come nel caso di Alayna Pernell, che lamenta la mancanza di controllo delle donne di colore sulla propria immagine, o di Simon Menner, che fa affido all’archivio della Stasi). Ogni immagine è contestualizzata con citazioni del fotografo, dei soggetti e soggetti terzi, arricchendo l’esperienza del pubblico rispetto a una mostra tradizionale, in cui è solitamente inclusa solo la voce del curatore.

A dimostrazione del carattere evolutivo della ricerca, al termine del percorso espositivo gli spettatori sono invitati a fermarsi in uno spazio di riflessione, in cui condividere i propri commenti e impressioni. Inoltre, il 29 maggio il museo ha organizzato una giornata di conversazioni con accademici e artisti per discutere delle questioni sollevate dalla mostra e definire la comprensione della fotografia in questo specifico momento storico.

Anna Aglietta, 22 maggio 2025 | © Riproduzione riservata

Chi è l’autore di una fotografia? | Anna Aglietta

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