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Curatola: parliamo come si deve

Giovanni Curatola

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Mi è tornato in mente quando mi è stato chiesto di scrivere qualcosa a proposito dei più frequenti luoghi comuni (ma ci aggiungerei anche fraintendimenti) relativi all’Islam, e in modo più specifico agli aspetti artistici (...) La prima confusione terminologica a cui pensare è quella, molto frequente, per la quale si usano indifferentemente e come sinonimi il termine «arabo» e «musulmano» o «islamico». Le cose ovviamente non stanno così. Gli arabi oggi sono in minoranza nel mondo islamico, e non tutti gli arabi sono musulmani (vi sono consistenti minoranze arabe cristiane in Siria, Egitto, Libano, Iraq); sono musulmani gli ariani persiani (e in Iran vi è una importante comunità armena, ovviamente cristiana), e lo sono in gran maggioranza anche i turchi (che come lingua hanno maggiore affinità col finlandese o il giapponese che non con l’italiano); la nazione che attualmente ha il maggior numero di abitanti di fede musulmana è l’Indonesia. In India i musulmani sono poco più del 12% (mentre sono il 90% in Pakistan), pur avvicinandosi di molto in termini assoluti. I cinesi seguaci dell’Islam sono «solo» una sessantina di milioni. (...).

Anche sull’interscambiabilità di «musulmano» e «islamico» ci sarebbe da argomentare e ragionare. Infatti i significati non sono sovrapponibili: si sente dire «gli islamici» invece che i musulmani; come dire «gli ebraici» invece che «gli ebrei». Non esattamente la stessa cosa. Con supremo sprezzo dei significati, e il fondamentale aiuto del poco colto giornalismo di oggi, si è anche molto distorto il significato di «islamista» (io lo ricordo per designare uno studioso, come «arabista» è colui che si interessa di dottrine legate all’arabo), e fino a un ventennio fa, o meno, onorevole, e oggi passato in qualche modo a designare i terroristi islamici. Così, spesso, mi autocensuro e definisco: orientalista, con buona pace di Edward Said...

Maometto è il Profeta dell’Islam (parola, quest’ultima, che si traduce con «sottomissione totale e incondizionata al volere di Dio»); ma il termine «maomettano» che talvolta ancora si ascolta (ampliamente usato, sbagliando, nel corso dei secoli), è un calco da cristiano; ma se i cristiani sono seguaci di Cristo, i musulmani, pur riconoscendo al Profeta uno status speciale, lo considerano un uomo (...) e rifuggono da ogni tipo di adorazione di Maometto.
Non è vero che non si possa rappresentare Maometto in effigie: nei primi secoli in cui si è diffusa la rappresentazione miniata (diciamo, per dare delle grossolane indicazioni cronologiche, fra la metà-fine del Duecento e fino al Quattrocento), egli viene raffigurato se non spesso, abbastanza di frequente e senza scandalo alcuno. In seguito, sempre con un limite cronologico indicativo che possiamo fissare a circa il 1500, il volto viene «velato» (pensiamoci: il velo a un uomo, e che uomo! Il prototipo della virilità (...) in ogni modo qualcosa che dovrebbe far riflettere molto sul rapporto stretto fra copertura/velatura=rispetto); viene velato per una forma di esaltazione della bellezza e luminosità che sconfina nel non rappresentabile. Per secoli, comunque, non è stata considerata certo blasfema la rappresentazione di Maometto.

E questo ci introduce a una altra importante considerazione. Fra i luoghi comuni, ovvero pregiudizi (in senso letterale) più tenacemente radicati, si fa fatica a sconfiggere quello della pretesa, e assolutamente infondata, iconoclastia islamica. Non ha basi coraniche, e qui, sia detto per inciso, ma con una enunciazione estremamente chiara, inequivocabile e precisa, va detto che mai (MAI) in nessuna sua parte il Corano (eterno e increato e trasmesso agli uomini da Maometto che lo apprende, lui analfabeta, da Dio (Allah) per tramite dell’Arcangelo Gabriele, ed è lo strumento per la salvezza dell’umanità), si occupa in alcun modo di arte. È vero, però, che la condanna, ferma e ripetuta, di ogni tipo di idolatria e il fermissimo monoteismo islamico costituiscono un deterrente forte alla rappresentazione realistica; ne faranno le spese, soprattutto, la scultura a tutto tondo (non solo umana ma anche animale) e la pittura monumentale.

Mai viene affermato, in via teorica, un principio di «proibizione delle immagini». C’è, invece, una forma, se vogliamo, di autocensura, quando l’artista sia consapevole, e in realtà non può essere altrimenti, che la creazione è sempre prerogativa divina. In quanto tale l’artista è strumento privilegiato dell’azione di Dio; in ogni caso la riproduzione di un’immagine realistica (scultura a tutto tondo, per esempio, o pittura a grandezza naturale), potrebbe porsi in concorrenza con la creazione (e il Dio dei musulmani non conosce, mai, riposo) per cui l’artista sa come evitare ogni tipo di tranello, o semplicemente astenendosi dal fare, oppure, rendendo l’immagine abbastanza irrealistica: per esempio nelle miniature non ci saranno mai figure umane dotate di propria ombra! Popolarmente (è nei hadith) si dice che Dio, il giorno del Giudizio, chiederà agli artisti che lo hanno sfidato sul piano dell’invenzione del reale, di dare vita alle immagini (...), e non potendo, ovviamente, soddisfare la richiesta, essi saranno condannati.

Dunque, niente immagini? Nemmeno per sogno! La distinzione è un’altra e legata allo spirito e alla condotta stabilita dal Profeta per la sua comunità (umma) di credenti: «[...] ché lo scandalo è peggio dell’uccidere [...]» (Cor. II, 191), che pur riferito a un contesto diverso da quello artistico è messaggio chiarissimo. Però lo scandalo è qualcosa di pubblico. La distinzione, islamica, è fra pubblico e privato. Nessuna immagine in edifici pubblici come moschea, palazzo (parte pubblica), madrasa (scuola, spesso anche coranica) ecc. (...) Negli edifici pubblici in genere ritroviamo solo brani decorativi con il repertorio epigrafico, geometrico e floreale astratto, cioè arabesco («arabesco» non ha niente a che fare con arabo; deriva da «a rabesche», termine rinascimentale atto a designare decorazioni con foglie e fiori, spesso astratte, molto diffuse nelle arti decorative islamiche).

Lo stesso sovrano (sultano, imperatore, re, shah) che ordina e patrocina un edificio pubblico assolutamente privo di alcun accenno decorativo realistico (men che mai veristico), ordina, invece, per il proprio diletto edifici di uso privato o oggetti (metalli, per esempio candelieri, ceramiche, legni, e, ovviamente, libri), nei quali le immagini sono assolutamente protagoniste. (...). A questo proposito un’altra credenza, errata, da sfatare è quella per la quale la sharia (la legge musulmana) sia essenzialmente coranica o derivi dai hadith di Maometto (la sua vita e le sue frasi, s’è detto, sono non solo proverbiali, ma fonte di emulazione); in verità la stragrande maggioranza delle norme del diritto musulmano sono state stabilite dagli uomini successivamente, e al Corano e ai hadith sono ispirate (formalmente e sostanzialmente).

Altra cosa errata è l’assimilazione proposta, e accettata, fra chiesa e moschea; questo ritengo che sia un fenomeno soprattutto contemporaneo, forse legato anche al diffondersi del turismo di massa in Paesi vicino orientali. (...) Si insegnava, una volta, che la chiesa, o meglio la basilica, che per essere tali necessitano di una consacrazione, era la «casa di Dio» (...), mentre la moschea (che non ha alcuna consacrazione e nemmeno sacralità) poteva essere considerata il foro e centro della vita sociale, ovvero una sorta di «casa del popolo». Insomma, un edificio nel quale prevale un aspetto religioso, giustapposto a uno nel quale, invece, è il mondo politico a prevalere. Cioè la moschea come luogo laico. (...) Vero è che la recente massiccia immigrazione (...) può aver spinto molti a credere in una analogia fra chiesa e moschea che, invece, è molto lontana dalla plurisecolare realtà storica. Analoga è la questione relativa al giorno festivo; Maometto indicherà il venerdì per una serie di motivi abbastanza complessi (fra i quali anche i rapporti con la comunità ebraica di Medina e quella cristiana), ma non come giorno di riposo, quanto come momento di riunione (e mercato settimanale), al termine del quale la comunità vivesse un momento di coesione e preghiera comunitaria, in questo, fra l’altro, dando particolare enfasi alla khutba, la locuzione politica pronunciata dall’Imam, la guida spirituale (in niente e per niente un «sacerdote», piuttosto un leader morale, spesso eletto per cooptazione). Le iscrizioni che troviamo in architettura (ma non solo; anche i manufatti ne ospitano di frequente notevolissime) non sono necessariamente coraniche, e dunque a contenuto religioso, come la maggioranza delle persone tende a credere, ma spesso anche a contenuto poetico. Nell’Islam, l’arabo era la lingua della religione, il persiano della poesia, e il turco della guerra; il fatto che utilizzassero il medesimo alfabeto può aver ingenerato confusione. Per esempio le iscrizioni coraniche non compaiono nelle ceramiche: la fragilità del materiale e l’uso profano che ne potrebbe essere fatto scoraggia un tale impiego. La calligrafia, a partire dal tardo X secolo quando lo stile sarà stabilito con regole di proporzione geometrica e di rapporto matematico fisso, è l’iconografia principale dell’Islam, sempre e ovunque. [estratto da un articolo pubblicato su «Il Giornale dell’Arte» n. 277, giu. ’08, pp. 43-44]

Professore ordinario di archeologia e storia dell’arte musulmana, Università di Udine

Giovanni Curatola, 02 marzo 2015 | © Riproduzione riservata

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