Non credo risponda a un caso che abbia visitato «Cere Anatomiche» in compagnia di tre amiche critiche. Cioè di tre donne. Prima di provare a decidere quale fosse la mia, ho studiato la loro reazione al breve video di David Cronenberg che avvolge quattro simulacri di donne nude, vive ma orribilmente eviscerate, adagiate nell’acqua di una piscina, mentre risuonano gemiti da vulgata porno. Una delle tre è indignata, la seconda si dice divertita, la terza resta imbalsamata nel suo sorriso eginetico. E io? Malgrado sia un devoto di «Inseparabili» e «Crash», quei mugolii mi sono parsi didascalici, e dunque cheap.
Le surrealistiche bagnanti di Cronenberg sono quattro delle «Veneri dei Medici» realizzate dal ceroplasta Clemente Susini (1754-1814) per conto dell’Imperiale e Reale Museo di Fisica e Storia Naturale di Firenze. Dalla Galleria degli Uffizi, nel 1775 venne spostato a Palazzo Torrigiani (detto «La Specola», dai fiorentini, per il suo osservatorio astronomico) dal granduca Pietro Leopoldo. Così distinguendo una volta per tutte la collezione artistica da quella naturalistica. Oggi le cere a Firenze sono più di 1.400; a Milano ne sono esposte 13, riproducenti corpi femminili: quattro figure intere e nove parziali provenienti dalla Sala dell’Ostetricia.
Sin dal Rinascimento lo studio dell’anatomia umana era, ed è, parte del cursus degli artisti; com’è noto il traffico di salme da dissezionare procurò non pochi fastidi a Leonardo, e le riproduzioni in cera supplirono agli impacci provocati nell’uso di cadaveri reali. Negli anni Quaranta del Settecento, a Bologna, vi si specializzò anche una donna, Anna Morandi Manzolini: è conservato un suo autoritratto, in cui con espressione ineffabile ci osserva mentre delicatamente eviscera un cervello umano. La produzione delle cere proseguì sino alla fine dell’Ottocento (quando vennero sostituite dalle fotografie), e sino al 1907 l’obitorio fu tra le principali attrazioni turistiche di Parigi. Del resto ancora ai nostri tempi le mostre splatter di Gunther von Hagens, «Body Worlds», sbancano i botteghini dei musei più snob.
Interrogata con malizia dal demiurgo della Fondazione, Mario Mainetti, l’attuale curatrice della collezione della Specola, Claudia Corti, siaugura che i materiali in mostra «saranno percepiti secondo l’intento dei loro artefici, che hanno voluto questa collezione per promuovere conoscenza e non per comunicare disagio e morbosità». Denegazione freudiana da manuale. La scienziata sa benissimo che Prada si rivolge precisamente all’ambiguità del nostro sguardo: che infatti incoraggia in tutti i modi, non solo per il (prevedibile) accostamento al più gelidamente orrorifico artista del nostro tempo, ma per l’illuminazione fredda e tenue, da obitorio, nella vulgata horror, della grande sala dove sono esposte le Veneri nelle loro teche lignee dalla decidua eleganza rococò (ben diversa l’illuminazione ferma e franca, cioè davvero scientifica, alla Specola). Ma anche in origine appare dubbio il loro fine meramente scientifico: non solo, fa notare Cronenberg, l’espressione sul volto delle Veneri sbudellate è placida se non improntata a quella che lui chiama the Ecstasy of Dissection, ma i corpi delle donne gravide nulla hanno delle alterazioni somatiche comportate dalla gestazione.
«Le figure di cera frustrano ogni tentativo di adottare verso di esse un atteggiamento chiaro e corretto. [...] Guardandole, improvvisamente ci viene un dubbio: non saranno loro a guardare noi?». Così scriveva José Ortega y Gasset, negli anni Venti, in La disumanizzazione dell’arte. Il disagio procurato da Cronenberg, capisco après coup, deriva dall’effetto specchio col quale attribuisce, alle incolpevoli Veneri, l’inconfessabile eccitazione sessuale che siamo invece noi a provare. (Personalmente però, manco un frisson. Se non la curiosità morbosa di scoprire più di un filo bianco nei capelli umani, veri, come le ciglia e i peli pubici, applicati alle cere per maggiore verosimiglianza, e che immagino invecchiati in forma postuma).
«Tutto qui ci parla di limiti trasgrediti», scriveva Georges Didi-Huberman in Aprire Venere. È arte o no, quella di Susini o quella (ancora più hard) del siciliano Gaetano Giulio Zumbo, che sempre a Firenze studia gli effetti della peste e della putrefazione? Sostiene Cronenberg, dialogando con Eva Sangiorgi, di aver sempre voluto «mettere in discussione il nostro senso estetico, il modo in cui percepiamo ciò che è bello e ciò che non lo è». Ernest Gombrich considerava la ceroplastica estranea all’ambito estetico per il suo «esorbitare dai limiti della rappresentazione simbolica»: ma è proprio questo il territorio di confine che esplora tanta arte del nostro tempo (lo ricorda in catalogo Riccardo Venturi): il ritorno del Reale, per dirla con Hal Foster, che spezza le nostre rappresentazioni, quello che Lacan definisce appunto il Simbolico. È quello che Jean Clair chiama l’immondo, e che Georges Bataille chiamava informe, a disturbare tanti osservatori. Il marchese de Sade, che aveva visitato la Specola appena aperta al pubblico, in Juliette si eccita a morte davanti alle Pesti dello Zumbo.
In La somiglianza per contatto Didi-Huberman ha spiegato come la secolare prescrizione nei confronti di queste forme di rappresentazione derivi dal loro calco di corpi reali, vivi o morti. Ma forse a farci reagire in modi così ambivalenti è un’emozione ancora più antica. In una delle delicatissime tavole a pastello che attorniano le teche, la scorticazione di una mano viene intitolata dall’anonimo estensore «IL SUBBLIME» (sic). Non credo che il disegnatore alludesse a Longino, né poteva aver letto Kant o Burke, ma non riesco a non pensare all’incredibile «Apollo e Marsia» di Tiziano a Kroměříž. È con paura e godimento che riconosciamo nel coltello del dio, col quale ci scortica da sempre, il pennello dell’artista. Un gesto sublime.
«Cere Anatomiche. La Specola di Firenze. David Cronenberg»,
a cura di Mario Mainetti, Milano, Fondazione Prada, fino al 17 luglio 2023