Alessandra Mammì
Leggi i suoi articoliOgni notte dal 7 febbraio 1978 Jan Fabre (Anversa, 1958) scrive un diario. È una sorta di autocoscienza ma anche di cronaca, di testimonianza, di fuga, di racconto di allucinazione che mette a nudo la mente visionaria di uno degli artisti contemporanei più complessi. I Giornali notturni sono ora raccolti in cinque volumi (ed. Cronopio, Napoli 2024) che sino alla notte del 31 dicembre 2012 ci conducono per mano nei segreti di Jan Fabre, che abbiamo intervistato.
Il 21 settembre 1978 lei scrive che «l’insonnia è una forma di lucidità... Solo di notte ho il tempo di essere chi sono». È qui l’origine del suo processo creativo?
Di notte, quando non riesco a dormire, disegno o scrivo. I miei testi diventano disegni, i disegni diventano testi. È una sensazione intensa avere tempo per creare mentre tutti gli altri dormono. Vivo uno stato di coscienza aumentata dove slittano i confini fra realtà e immaginazione. Questo stato alterato mi conduce a una più profonda esplorazione del subconscio che apre nuove porte alla fantasia e all’immaginazione e a volte si traduce in frasi o disegni. L’intimo rapporto fra insonnia e creatività nel mio lavoro dimostra come il lusso dell’insonnia può favorire l’espressione artistica sciogliendo i confini fra pensiero e forma. A volte è la mente che mi guida, altre invece la mano.
Nei «Giornali» è ricorrente l’«ora blu», che precede l’alba, e l’inchiostro blu delle Bic è il colore dei disegni. Perché la sua notte non è nera ma blu?
Amo molto l’essenza chimica di quel particolare inchiostro. Il blu Bic contiene verde, viola, rosso e ombre di argento. È il colore notturno che più amo e dove spesso scompaio io stesso. La mia notte blu diventa un regno dell’immaginazione, della spiritualità e del subconscio evocando sentimenti di calma e profondità. Il blu Bic mi conduce alla contemplazione e all’introspezione, regala ricchezza e complessità all’oscurità e all’oscenità delle mie notti.
Una personalità come la sua, che sembra divorare in modo quasi bulimico e travolgente la vita, trova ogni notte il tempo di compilare la cronaca di ogni giorno. Come spiega tanta disciplina?
Credo negli strumenti della «consilienza» (conciliare cose diverse fra loro, Ndr), della ripetizione e della disciplina. Sono cruciali nella mia totale ricerca e pratica, dalle arti visive al teatro fino ai testi. Considero la ripetizione e la disciplina come un metodo per raggiungere in profondità il nucleo concettuale della memoria, perché tutte le mie creazioni hanno nell’anima la memoria. Esplorando più e più volte gli stessi temi o forme, creo un ritmo e un’intensità che dà eco alle mie ossessioni. Riprodotte in serie, le mie ossessioni illuminano il buio, producono nuove idee. La mia disciplina è dovuta al rigoroso approccio sia al processo creativo sia ai temi che esploro. È la mia passione che mi trascina in un meticoloso lavoro di maestria artigiana che riflette il profondo rispetto per la tradizione e il mio viaggio nelle avanguardie. Non dobbiamo dimenticare che la creatività non nasce solamente da un atto spontaneo e organico, ma può emergere da una strutturata pratica e perseveranza. La convergenza di disciplina e ripetizione rivela la «simplexity» (neologismo per unire i concetti di complessità e semplicità, Ndr) e complicità del mio pensiero. Ed enfatizza la tensione fra le opposte forze di Caos e Ordine.
Nei «Giornali» c’è un continuo rimando dall’una all’altra delle sue attività: arte e teatro. Che cosa regala il teatro all’arte e l’arte al teatro?
Sono due discipline diverse, ognuna con i propri strumenti, la propria memoria e storia. In quanto artista «consiliente» posso vedere i legami tra questi due linguaggi e, analizzandoli, posso sviluppare per ognuno di loro interpretazioni nuove. Per esempio, dalla cinetica intelligenza dei miei attori e danzatori imparo cose utili per le mie sculture. Oppure sono le installazioni d’arte visiva che ispirano scenografie e creazioni teatrali. La mia natura fisica e mentale mi permette di lavorare di giorno in teatro con le persone, dividendo con loro energia e idee e poi di notte in solitudine mi fa trovare un dialogo con la materia necessaria al lavoro visivo.
Nel 1979 lei scrive: «Voglio diventare un artista universale non internazionale».
Ho da sempre messo tutto il mio impegno per essere un artista locale. Voglio dire che tutto il mio lavoro è ispirato alla mia biografia e a ciò che mi circonda. Perché se si vuol cambiare il mondo, bisogna cominciare da sé stessi e aiutare chi ci è vicino. Non sono mai stato contagiato da ciò che chiamo «internazionalismo». Malattia comune nel mondo dell’arte, peggiorata dalla globalizzazione e dalle relazioni socialmondane. In molte delle mostre internazionali che vediamo, sentiamo che gli artisti hanno creato lavori obbedienti ai concetti del curatore. Voglio rimanere un artista locale perché credo che un artista locale sia un artista universale. Sono un romantico perché credo ancora nell’avanguardia, così come l’ha definita il grande scrittore Octavio Paz. Perché il mio lavoro poggia sull’esplorazione dell’esperienza umana con un’aspirazione al sublime e una connessione con l’identità personale e collettiva. E infine perché la mia arte, il mio teatro, la mia scrittura riflettono il desiderio di sfidare le norme ed esprimere nuove idee e forme, incarnando un senso di urgenza che trascende la cronaca quotidiana.
Il rapporto con la storia dell’arte attraversa tutti i diari. Si percepisce un’appartenenza...
Come tutti i geni sono un grande ladro, consapevole che non c’è avanguardia senza tradizione. Sono un artista belga radicato nell’eredità culturale fiamminga. La mia stessa famiglia è stata una fonte d’ispirazione. Mio padre, un povero comunista che parlava fiammingo, era un disegnatore classico molto bravo, specializzato in giardini botanici. Da bambino mi portava allo zoo di Anversa per disegnare animali e persone e mi introduceva allo studio della fisiognomica di Lavater. Più tardi andammo alla Rubenshuis per copiare disegni e dipinti di Rubens. Mi insegnò che l’imitazione è una profonda forma di intelligenza. Mi portò poi al Museo di Belle Arti e lì copiai i maestri fiamminghi. Mia madre invece arrivava da una famiglia cattolica benestante ed era cresciuta in Francia. Mi ha trasmesso la passione per la letteratura. Quand’ero ragazzo, traduceva per me i grandi poeti francesi e gli chansonnier. Per questo tutta la mia arte visiva e il mio teatro nascono da una commistione tra immagine e linguaggio. Inoltre attraverso la mia famiglia ho ereditato alcuni libri originali del famoso entomologo francese Jean-Henri Fabre. I suoi studi sugli insetti hanno ispirato tutto il mio lavoro. Per la mia arte visiva rubo moltissimo dai grandi fiamminghi come Rubens, Van Eyck, Bosch, Memling. Non dimentico mai di essere un nano nato in terra di giganti.
Il 14 marzo 2010 lei scrive: «L’ascesa del femminismo radicale di destra sarà inarrestabile, nel prossimo futuro l’artista maschio etero sarà messo al rogo pubblicamente». Una profezia. Tre anni fa lei fu coinvolto in una causa per violazione della legge sul benessere dei lavoratori del teatro e aggressione al pudore, ovvero un bacio alla francese, che si è conclusa con una pena sospesa a 18 mesi, già trascorsi. Che cosa le è rimasto di questa vicenda?
Per ognuno di noi nella compagnia ha portato un positivo cambiamento, ci siamo resi conto che nuovi tempi richiedono nuovi linguaggi. Fino alla primavera del 2019 nel teatro/compagnia Troubleyn ogni componente, e io per primo, ha lavorato in accordo con una rigorosa e trasparente politica di integrità e di benessere in linea con quel che in Belgio è definito lo «stato dell’arte». Ci sono due «garanti» nella compagnia e ogni passaggio del processo artistico avviene con il consenso di chiunque sia coinvolto. Tutti questi passaggi sono poi registrati, scritti e archiviati: ogni lavoratore della compagnia sottoscrive questo protocollo e dà il suo consenso. Ciascuno quindi si sente protetto in modo che nessuno più tardi possa inventare cose provocate solo da una diversa percezione della realtà. Ci ho messo del tempo per capire che questo processo non fosse basato sulla «verità dei fatti» ma sulla sola percezione.
Una percezione del mondo cambiata, come ci ha mostrato nell’ironica pièce scritta a quattro mani con la sua attrice Stella Höttler: monologo in cui lei si scusa di essere bionda, bianca, tedesca, carnivora, fumatrice ed eterosessuale convinta.
L’idea del monologo «I’m sorry» nasce quando durante una performance fummo disturbati da due giovani e piuttosto corpulente spettatrici che parlavano e ridevano di continuo. Fui sorpreso di scoprire che i loro commenti si riferivamo al corpo e al volto di Stella che secondo loro era una bellezza troppo classica per avere talento. Una sorta di «body shaming» al contrario. La stessa sera decisi di scrivere un testo in cui Stella chiedeva perdono per la sua bellezza, per il suo talento e per il suo spirito libero. Si scusava perché era brava e ambiziosa, perché amava ed era riamata. In poche parole si scusava per essere sé stessa. Il testo celebra la bellezza e il talento di Stella senza vergogna. Appare in verità evidente che il suo essere bionda, bianca, tedesca ed eterosessuale non obbedisce ai canoni contemporanei e provoca invidia e commento. Viviamo nell’epoca del terrore del politicamente corretto. Questo crea molta ipocrisia e vigliaccheria. Il clima che respiriamo oggi ricorda il maccartismo americano degli anni Cinquanta che spingeva le persone a tradire e a condannare ingiustamente altri, spesso con un’idea di sé come persona irreprensibile e giusta. Al giorno d’oggi il politicamente corretto condiziona e governa la qualità artistica per il semplice fatto che si ha paura di finire dalla parte sbagliata ed essere giudicati. Questo comportamento compromette la libertà dell’arte. L’arte non può essere giudicata dal colore della pelle, dal corpo o dall’identità sessuale. L’arte non è giusta o sbagliata. L’arte deve essere libera da ogni ideologia e dovrebbe difendere il colore della libertà.
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